ANDREA CIOMMIENTO | Rafael Spregelburd torna in Italia in occasione di “Spam”, l’opera che ha visto come protagonista l’attore Lorenzo Gleijeses al Napoli Teatro Festival e alle Colline Torinesi 2013, una produzione caratterizzata al debutto da divergenti critiche sulla buona riuscita dell’allestimento (una versione dello stesso lavoro è prevista anche oltreoceano, questa volta con Spregelburd attore al Colón di Buenos Aires in ottobre). Un nuovo passo italiano dell’autore argentino a seguito della conduzione in qualità di maestro dell’École des Maîtres 2012, il progetto itinerante d’alta formazione europea dedicato alla “conversione graduale degli attori in pensatori dell’impreciso”, più complessi di ogni personaggio da portare in scena.
Abbiamo seguito la prima fase dell’École nella sua tappa italiana antecedente al tour europeo. Quali sono state le evoluzioni progettuali? Nel lavoro svolto la condizione era quella di poter parlare inglese nonostante le origini di ognuno: gli attori francesi non parlavano inglese, gli attori di origine belga e italiana non sapevano bene le altre lingue e i portoghesi, invece, le parlavano tutte. Un po’ come gli argentini. La sensazione è sempre quella di stare al limite del sistema per integrarsi in esso così apprendendo le lingue delle altre culture. Mi sono chiesto come costruire un racconto e perché costruirlo in inglese, la lingua del grande impero, considerando il fatto che lo spettacolo mai si sarebbe mostrato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, paesi in cui il teatro straniero poco interessa. Lo spettacolo creato insieme agli attori dell’École era una specie di telenovela, una soap opera ai suoi ultimi capitoli in cui gli attori erano disperati perché si erano accorti che non avrebbero più lavorato dal momento che la soap stava per finire. Da qui l’intero sviluppo. Era importante comprendere cosa facessero gli attori di quattro distinti paesi europei con un regista argentino alla ricerca di un senso condiviso.
Uno sviluppo integrato dalle rielaborazioni sulla “teoria del caos”? Sì, una ricerca per la costruzione di una narrazione caotica, complessa e autosimilare. Penso questo sulla biologia del racconto: quando un racconto è vivo genera temi biologici che descrivono bene la teoria del caos, al contrario di quando un racconto è morto con la conseguente segnalazione dell’esteriore ovvero l’opinare sulla realtà invece di costruirsi come oggetto reale in scena.
In queste settimane ha debuttato a Napoli e a Torino il tuo nuovo spettacolo “Spam”, una composizione drammaturgica tra musica e teatro… È un’opera parlata (Sprechoper). Un contesto musicale non narrativo: un genere che m’interessa molto. Non è l’opera lirica che mi sembra morta nel suo classicismo. Non m’interessa tanto quello ma la relazione tra musica e teatro: c’è un attore e un musicista. L’attore a volte è un personaggio, a volte racconta e fa altri personaggi. Poi ci sono alcuni video, falsi documentari e materiali di spam. Tutta l’’opera è immondizia virtuale, frammenti di realtà quotidiana pop. È un’opera apocalittica, triste e ridicola. Molto divertente. C’è un professore che inizialmente si nega come relatore di tesi a un’alunna. Non si sa il perché all’inizio, soltanto poi lo scopriremo. Nel mondo virtuale possiamo osservare come lo spam sia produzione di cose non necessarie. Vediamo molto chiaramente come la produzione d’immondizia occupi e soffochi la produzione di alimenti, di cultura, di vita, di spazi ecologici più ragionevoli.
Anche in quest’ultimo lavoro affronti la messa in crisi del sistema o quantomeno la percezione che abbiamo della messa in crisi del sistema… Questo è il nostro tempo: stiamo vivendo la crisi del sistema bancario. Sembra la crisi di tutti i paesi con una cultura che sta andando a picco perché abbiamo deciso di intitolare questo periodo “crisi”. Un prodotto di mala gestione e di speculazione finanziaria enorme. Quando gli artisti vogliono parlare della crisi e la rappresentano, pensano di denunciarla ma di fatto diventano complici della costituzione della crisi stessa come qualcosa di vero. In realtà è il contrario: serve concentrarsi sulla voce dei giovani che sono nati nel sistema di crisi e in realtà hanno diritto a vivere in un mondo dove percepire le possibilità di un progetto futuro. Nel nostro caso specifico, anche la situazione dei giovani italiani che vogliono fare teatro mi sembra molto difficile. La difficoltà sta nel fatto di riuscire a gestire spazi di produzione teatrale autonomi dal momento che tutto viene già fissato dalla generazione precedente.
È soltanto un fatto di autonomia produttiva o anche d’identità? Quando tutto si taglia gli unici che hanno accesso sono quelli che già sono in cima con un’identità forte che riflette e ripete solamente se stessa, generando così un fenomeno teatrale che si distanzia dalla novità e dall’originalità. L’originalità non sembra più essere un tema dell’arte contemporanea in Italia. L’originalità in altri momenti della storia dell’arte è stata sopravvalutata. Per apparire come artista dovevi fare qualcosa di molto differente dagli altri, anche se poi il lavoro di artista è sempre stato per tutti un lavoro di ricerca e di rischio. Quando il sistema va in crisi il denaro viene dato ai pochi che non rischiano mai e che solamente ripetono ciò che esiste come modello. I giovani non hanno speranza così perché dovranno formarsi al gusto di un sistema a cui non appartengono.
Ci sono convergenze tra Nuovo e Vecchio Continente? In Argentina, quando mi formavo, c’erano i teatri ufficiali che producevano testi classici con attori giovani dal gusto tradizionale senza la necessità di nuovi creatori, come qui da voi. L’unica differenza è che, non avendo sussidi di nessun tipo a Buenos Aires, ci sono nuovi creatori che generano i loro spazi. Dicono quello che vogliono dire così il pubblico li conosce, li riconosce e li ama molto. Tutto è più facile quando non esiste una dipendenza economica.
Nello specifico italiano, l’esperienza del Teatro Valle potrebbe rappresentare una possibilità di scardinamento delle porte regali del sistema? Il Valle è un’esperienza fantastica. Il rischio è che si trasformi in un simbolo e non in un motore di produzione. È fantastico perché mostra un’eccezione alla regola ma le regole continuano a esistere. Il denaro continua a essere in mano alle grandi istituzioni statali. Si possono fare le stesse cose ma è solo un’eccezione. A Buenos Aires la regola è invertita: c’è teatro in qualsiasi luogo si possa fare teatro e il pubblico lo guarda come qualcosa di divertente, intellettuale e crescente. Non un’eccezione.
Il cuore della creazione può pulsare portando al centro il fatto artistico e non solo la produzione economica… Il motore è far teatro, produrre teatro. Il concetto di produzione economica non è priorità da noi. Tutto quel che costa molto denaro è quasi sempre disprezzato a Buenos Aires. In Italia la tradizione produttiva porta ad avere spettacoli con una struttura scenografica e video carissima e importante. A Buenos Aires preferisco concentrarmi sulla creazione artistica ovvero il testo, l’interpretazione e la tecnologia narrativa. L’unica vera tecnologia è solo una: la capacità dell’attore di creare racconto.