Schermata 07-2456482 alle 13.54.36RENZO FRANCABANDERA | Venti minuti. Un tempo brevissimo. Eppure mitico. Nel mio immaginario legato all’adolescenza e alla sessualità. Nell’immaginario teatrale, da alcuni anni, definisce per antonomasia la proposta di “studio” con cui le compagnie, giovani e non solo, propongono anteprime dei loro lavori, al fine di testarne la robustezza scenica.
Siamo pro o contro i 20 minuti? La madre del mio amico Mario, io da poco maggiorenne, durante un pranzo a tavola in cui si parlava di rapporti sessuali, mi disse: “Beh, per una donna è bello quando dura almeno venti minuti…” Alle prime armi e con una foga che all’epoca poteva essere quella di Flash Gordon, venti minuti mi sembravano un tempo lunghissimo. Irraggiungibile.
Può esserlo invero anche a teatro, se lo spettacolo è noioso. Detto questo, nel recente passato ho testato come la consistenza della proposta dei venti minuti sia abbastanza effimera, specie per gli spettacoli delle giovani compagnie, che si concentrano a trovare idee buone per quell’orizzonte temporale. E’ frequentissimo però verificare come idee che sembravano interessanti sull’orizzonte breve, trasposte (spesso stiracchiate) sulla durata di un’ora, diventavano insopportabili. Oltre al fatto che per qualche anno (adesso per fortuna pare si sia capita la cosa) i Festival erano infarciti di “venti minuti” di questo o quello, di “primo studio per..”.
La rassegna Tfaddal, ospitata al Franco Parenti nel maggio scorso, ha suggerito una soluzione diversa: non pillole di spettacolo, o studi per (anche se qualcuno l’ha inteso in questa forma), ma spettacoli di 30 minuti su l’Amleto. Gli artisti chiamati a declinare, ognuno a suo modo, il classico shakespeariano, scelti da tre rappresentanti del giornalismo teatrale. Mezz’ora o poco più. Ne sono scaturite proposte diversissime, alcune più consistenti e robuste, altre da rodare, altre deboli, ma comunque con un importante successo di un pubblico giovane, che in una serata fruiva tre o quattro di queste brevi esecuzioni spettacolari.
Secondo me questa è una possibilità. Il tempo di 30-40 minuti è un tempo che cerca una mediazione fra il performativo e il teatrale, che consente non solo di esporre un’idea, ma di approcciare forme spettacolari nuove, sfidanti.
E soprattutto con un focus sull’essenziale, cosa che spesso le compagnie hanno in scarsa considerazione, allungando i tempi oltre l’ora per presunte esigenze di promozione. In onestà, riteniamo preferibile di gran lunga una proposta interessante di 30-40 minuti che una poco convincente di un’ora e mezza.
Perchè insomma bisogna per forza durare?
Certo, se la mamma di Mario mi avesse detto 30 minuti, sarebbe stata come il tocco della spada avvelenata di Laerte. Ne sarei potuto morire.

Ecco le interviste e le immagini della rassegna al TFP di Milano
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