copertina ennemi publicMARIA CRISTINA SERRA | Se l’arte contemporanea è anche una lente di ingrandimento che mette a fuoco le distorsioni del presente, quando entra oltre le sbarre del carcere, con le sue illuminazioni diventa testimonianza di smarrimento esistenziale. Uno sguardo dissacrante che scala gli alti muri di cinta fuori dai quali il mondo esterno si immagina al sicuro, separato da quello destabilizzante dei reati e delle pene. Un’immaginazione libera per raccontare gli abissi, dove le parole perdono senso e non pronunciarle può sancire la salvezza, per dilatare il non-spazio e misurare il non-tempo. Un tentativo di fissare con tensione emotiva quel microcosmo di vite perdute, intrecciate di solitudini e promiscuità per coglierne le speranze disattese e i desideri soffocati, sparpagliati e immiseriti lungo i labirinti dei corridoi sbarrati da cancelli insuperabili.

Più della cronaca, su ciò che avviene “dentro”, con il carico di violenza, sovraffollamento, suicidi e disperazione, sono le parole di Dostoevskij a farci riflettere: “Il grado di civiltà della società si misura dalle proprie prigioni”. Mentre in Italia scorre il film infinito sulle nuove misure detentive (dopo la condanna di Strasburgo), in Francia gli artisti si affidano alla concretezza delle loro visioni. “Era da molto tempo che pensavo di realizzare una mostra sulle prigioni”, ci dice Barbara Polla, scrittrice e gallerista d’arte a Ginevra e Parigi, “da sempre questa tematica è stata al centro della mia emozione politica, la mia prima ribellione contro l’assurdità  di ciò che gli uomini fanno agli altri  uomini. Sogno l’arrivo di un nuovo Basaglia che possa aprire quelle porte, così come lui ha fatto per i manicomi in Italia”. Così è nato il progetto sull’ “Ennemi Public”, con una  prima mostra alla galleria parigina di Magda Danysz, spazio affacciato sulla strada, ma “con delle sbarre a tutte le finestre, sulle quali sono state posti vasi pieni di fiori bianchi come omaggio a Jean Genet”. E poi, conferenze, performance, video, la pubblicazione del libro “L’Ennemi Public” (La Muette ed.) scritto insieme a Paul Ardenne con il contributo di artisti di fama mondiale, legati tra di loro dall’idea  “dell’arte come sollecitazione e azione politica” e dal comune desiderio di coniugare estetica ed etica. ”Sono artisti in costante lotta, non con un Public Enemy, ma con i loro nemici interni”, spiega Barbara Polla, che vivono pienamente  sia le assonanze  fra immaginazione e realtà sia le dissonanze del brutto per filtrare il bello. Come in un gioco di rimandi incrociati le opere escono delle gallerie ed entrano nelle pagine scritte; le soggettività tracciano parabole ardite per fondersi in oggettività dense di connessioni fra letteratura e filosofia.

l'ultimo pasto condannato a morteJoanna Malinowska modula la sua arte di “antropologa culturale”, in perenne dualità fra materia e spirito nella ricerca di un equilibrio fra diverse culture, per chiedere la grazia di Leonard Peltier (nativo americano, militante dell’AIM, sepolto in un carcere federale da 36 anni, condannato a due ergastoli senza prove certe), con una lettera a Obama e un cadeau di tabacco profumato per siglare la pace con i “First Nations”.

Le tonalità fiamminghe delle composizioni stampate su pelle di capra di Mat Collishaw (al museo Pascali di Polignano a Mare una sua personale) “Last Meals on Death Row”, riscrivono le nature morte seicentesche ispirandosi all’ultima cena dei condannati a morte nelle carceri USA con tocchi di “sublime orrore”. L’intreccio fra mondo letterario e artistico e quello dell’esperienza è declinato con rigore dal filosofo e storico dell’arte Paul Ardenne. “La prigione esiste, è un dato materiale, uno spazio, un perimetro di vita, un luogo di coscienza. Va visibilizzata, interrogata sul suo significato di rivelatore intimo, sociale, immaginario, simbolico”. Sfogliando le pagine si entra in un percorso circolare che libera la mente dal pregiudizio. Si colgono le intuizioni laiche e razionali e la consapevolezza di Foucault, i frammenti poetici di Genet e il suo “Chant d’Amour”, il crudo realismo della serie TV americana Prison Break, l’esistenzialismo di Heiddegger, le lacerazioni e le sconfitte dopo le illusioni di Kafka. Non si sfugge alla condanna nel “Processo”. E nella “Colonia Penale” è sempre certa la colpa. Compie un viaggio nella memoria Jean-Michel Pancin nella penombra della prigione Saint-Anne di Avignon, ricomponendo con la cura del dettaglio, simile a un affresco di Balzac, la vita dei suoi abitanti. La luce accecante entra come lamelle, a intermittenza, nel buio delle celle: “Ho fatto dialogare la luce solare, la libertà e la potenza dei muri, depositari delle storie dei detenuti”. Jhafis Quintero (ex-detenuto a Panama, artista alla Biennale di Venezia) abbatte le pareti della reclusione e delle tante solitudini: ”La creatività è essenziale per sopravvivere. Mi ha permesso di organizzare in maniera estetica il pensiero, mi ha fatto rappresentare la trasgressione che è parte di me”.

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