VINCENZO SARDELLI | Riapre il Teatro dell’Arte-Triennale come luna park intimistico. Porte aperte tra edifici architettonici: il pubblico si riversa negli spazi dell’edificio progettato ottant’anni fa da Gio Ponti. È un percorso inusuale, con attraversamento di generi e sperimentazione di nuove forme espressive. È un modo diverso di essere spettatore, un intreccio tra teatro, musica e danza con arti applicate, architettura e design, grazie agli strumenti offerti dalle nuove tecnologie digitali e dall’immagine elettronica.
Tre spazi, tre luoghi creativi. Si parte con il gruppo Opera, diretto da Vincenzo Schino, presente con l’installazione Il bosco / passaggio con respiro, su pitture di Pierluca Cetara. Si prosegue con Retroscena2 / memorie aeree di camera astratta di Studio Azzurro e Paolo Rosa. Si finisce con Test pattern del giapponese Ryoji Ikeda, con il suo linguaggio musicale e visivo totalmente generato da un computer.
Tre spazi, tre luoghi dell’anima. Un viaggio escatologico sfasato e senza lieto fine, verrebbe da dire: purgatorio, paradiso e inferno, senza ritorno.
Suggestiva la prima tappa, con dipinti su tela che raffigurano soggetti umani in preda a un sonno vicino alla morte. Occhi chiusi su quelle tele, visi animati dalla luce che sale, scende, sfuma, si spegne, accompagnata dal riverbero di note eseguite al pianoforte da Federico Ortica. La relazione crossmediale coinvolge lo spettatore, supera la percezione bidimensionale, crea una drammaturgia del respiro. È forse la parte più poetica del viaggio. La luce mostra l’intensità del colore, la forza delle pennellate, la corposità della materia creativa. Svela trasparenze. Questi dipinti-arazzi formano una foresta d’immagini e inquietudini, di spettri ed estasi. Sublimano nella seconda tappa del percorso.
Ci arriviamo lambendo i camerini, dove si preparano per la scena non attori o truccatori, ma corde e fasci di luce. Proprio corde pendenti, colpite a pois da fasci di luce, insieme a onde elettromagnetiche e suoni onirici, saranno protagoniste della Camera astratta. In questo spazio delle meraviglie si rimane a bocca aperta davanti ai caleidoscopici effetti luminosi. Si percepisce l’essenza dell’uomo, “misura di tutte le cose”. Non è l’arte in sé che ammiriamo, ma l’interazione tra arte e luce.
Dal paradiso all’inferno il passo è breve. Il celebrato Ryoji Ikeda, star giapponese dell’intreccio di musica e arte visiva, attende immobile. Sul maxischermo alle sue spalle, azionate dal computer, scorrono geometrie in bianco e nero come rettangoli di cruciverba sillabici e quadrati di scacchiere, nastri rullanti, e codici a barre. L’inganno pirotecnico s’accompagna a fischi assordanti, sibili e ronzii, rombi come locomotive e mitragliatrici. L’irreale disarmonia, squilibrio di luci e ombre, diventa alienante macchina tecnologica, catena di montaggio che fagocita e bombarda lo spettatore. I fuochi d’artificio elettronici diventano monotonia soffocante, martellamento dei timpani (e dei maroni). È una sequenza sferragliante senz’anima, né sentimento né pentimento. Se la musica di Mozart è euritmia, proporzione che stimola intelligenza e pensiero divergente, quest’esibizione, che dipende dai capricci del demiurgo, sortisce l’effetto di un impasticcamento d’ecstasy sotto i rumori devastanti di una discoteca techno-house. Con la differenza che non godi neppure un secondo e ti riempi il cervello di radicali liberi. Gli allucinanti effetti sonori di Ikeda, Hikikomori del palcoscenico, mettono alle corde il sistema nervoso.
È una prova di resistenza. Molti spettatori s’allontanano già dopo i primi minuti. Rimangono gli stoici. Alla buonora, dopo sessanta minuti di percussione autistica, Ikeda schizza via tra qualche applauso, silenzi esterrefatti e alcuni fischi.
Usciamo dalla sala con una gran voglia di gelato. Persuasi che, d’ora in poi, troveremo la poesia anche nell’alito pesante di un ultrà o in una barzelletta spinta di Berlusconi.
L’arte di Ryoji Ikeda (o le bizze della Tv degli albori)
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