MARAT | Ma veramente c’è qualcuno che ci crede? E non dico agli angeli, alla reincarnazione, agli alieni, alla musica indie, al tabaccaio sotto casa aperto a quest’ora o che Armstrong non si dopasse. Libertà autonoma di abbindolamento. Ma che la spesa per gli F35 venga dirottata alla cultura è roba da professionisti dell'(auto)illusione. Come quando un giorno di maggio del 1973, mio padre all’estero, apre un quotidiano straniero e legge: Verona – Milan 5:3. Si consideri che era l’ultima giornata di un campionato dominato dalla squadra di Nereo Rocco e se proprio buttava male si poteva ancora rimediare con un pareggio, c’era già il Veuve Clicquot in fresco. A questo punto si può capire come mio padre, all’epoca bello, giovane, innamorato e un po’ dandy, abbia chiuso il giornale pensando a un refuso. Due cifre invertite. Beata illusione. Era la Fatal Verona… Comunque non sia mai, magari questa volta non è così. Ma per quanto mi riguarda, sono pronto a mangiarmi il cappello, come Rockerduck. E devo ammettere che un po’ rimango pure spiazzato che in tanti ci possano credere con tale leggerezza. E magari prenderne spunto in un pezzo, per riflessioni teatrali, precoci giudizi politici, assoluzioni di categoria. Per sottolineare anche come i teatranti quasi mai siano stati responsabili della crisi attuale, quasi mai colpevoli di cattive gestioni. Mah. Sarà. E sorvolo sull’appello retorico che qualcuno finalmente dica come noi si campi male. Che mi fa pensare che non solo non ci sia dialogo fra vecchi e giovani (e per me vecchio e anziano a teatro sono sinonimi, tranne rari casi a cui mando un abbraccio forte, fortissimo). Ma nemmeno fra colleghi coetanei. Tornando all’innocenza, credo sia sintomo di un difetto atavico del teatro e dei suoi protagonisti. Evidentemente anche dei suoi protagonisti più lucidi. Ovvero che il teatro sia buono e la politica sia cattiva. Che il teatro sia una cosa e il resto del mondo un’altra. Ben distinti. Tutti santi, tutti vittime. Ma i teatranti hanno eccome responsabilità nell’attuale crisi. Di settore e non. E penso a gestioni e furberie, alla non tutela dei lavoratori, all’ipocrita difesa dello status quo che diviene sistema. A (soprattutto) l’incapacità di proporsi come categoria. E piaccia o meno, anche i teatranti fan parte di una comunità. Votano, eleggono rappresentanti, hanno un governo da sostenere o a cui opporsi. Il considerarsi innocenti ed estranei al resto della società, sbandierare una illibatezza acritica, tradisce un senso di diversità (una snoberia) che molto ha da spartire con il complesso d’inferiorità. Ed è questa la distanza. Fra il lottare insieme per un proprio diritto e l’inseguire una regalia. Una chimera.
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