camerini1MARAT | Luglio 1982, Italia Mundial. Ci si abbraccia ai gol di Pablito Rossi. Il partigiano Pertini esulta in piedi davanti al mondo. E si balla. Grazie ad Alberto Camerini, Arlecchino dinoccolato, esploso l’anno prima con Rock’n’roll robot. È l’estate di Tanz bambolina, via di mezzo fra i Kraftwerk e i falò sulla spiaggia. Pare qualcosa di nuovo. In un paese quasi da bere, grasso di droghe, rigurgiti fascisti, Moncler. Ascesa e caduta di un genietto bruciatosi col fuoco. E con un Sanremo disperatissimo. Prima di tornare in forma. E vederlo a Ferragosto al Carroponte di Sesto. Che (non) si esce vivi dagli anni Ottanta.

Camerini, vieni definito un precursore.

«Merito anche di Roberto Colombo, mio storico produttore. Insieme eravamo sintonizzati su quello che succedeva in giro per il mondo, abbiamo portato in Italia un linguaggio internazionale e contemporaneo. Certo, da un altro punto di vista non eravamo per nulla folkloristici, slegati dal territorio. Diciamo che non eravamo un olio d.o.p.”.

Ovvero?

«Intendiamoci, anche la musica veneziana del Settecento è folklore, non ne parlo con toni dispregiativi. Ma di certo non mi apparteneva e un po’ l’ho pagata, soprattutto negli Anni Novanta. Ma in realtà le 126 battute al minuto sono tornate molto presto».

E non se ne sono più andate.

«D’altronde ci si incastra perfettamente sui gusti dei nuovi dj, è musica per il corpo, per chi ha voglia di muoversi. L’altro giorno ho ascoltato l’album di Neil Young, tutto analogico. Devo dire che mi ha fatto pena. Ne capisco il valore e anche l’importanza, ma la qualità è da mani nei capelli. Il digitale si armonizza con il contemporaneo, continua a proporsi con nuove caratteristiche».

La moda però è anche revival.

«Già. Raffaella Carrà ormai la si sente perfino nei cessi dell’autogrill».

Differenze coi tuoi anni d’oro?

«Viviamo un tempo sospeso. Non esistono più passato, presente e futuro. Una volta le produzioni indirizzavano i gusti degli ascoltatori. Oggi invece il fruitore è libero di scegliere in totale autonomia, ogni cosa a disposizione di fronte a sé».

Com’è il tuo pubblico?

«Dalle famiglie giovani al culmine della loro bellezza, fino ai disperati, ai rockettari, ai darkettoni funerei, a gente del tipo “o la figa o la morte”. E in mezzo tanti che frequentano le discoteche. Perfino qualche nostalgico della Cramps e quindi della chitarra acustica, tutti over 50».

Il successo?

«Positivo. Molto. Esaltazione, fama, soldi, la nascita della bambina, una grande casa. Ma come succede a tanti, diciamo che a un certo punto ho picchiato la testa sul soffitto, divenendo la caricatura del cantante superbo, che si crede arrivato, del “faccio tutto io”. Mi è mancata la presenza di un manager in gamba che mi aiutasse. E così ho perso la moglie e ho venduto la casa. Ma ora non posso lamentarmi, quando lavoro è una festa. E poi c’è la mia famiglia. Mia figlia è una scrittrice, mio figlio vuol fare il giornalista».

Meglio la rockstar. Ma perché a un certo punto ti separi da Roberto Colombo?

«Perché mi tradì per andare con Miguel Bosè, più bello, figlio di una ex-Miss Italia, roba da classifica internazionale».

Un momento difficile.

«Hanno molto esagerato questa cosa. Guarda, fu solo un piccolo esaurimento, un po’ di trattamento sanitario obbligatorio».

Rise and fall del nostro Bowie?

«Magari. Almeno per il conto in banca…».

L’hai conosciuto?

«Mai. Comunque mi ha sempre fatto impazzire, fin dai tempi di Ziggy Stardust. Che secondo me si poteva limitare al rise, senza fall».

Il tuo ultimo lavoro risale al 2005: Kids wanna rock.

«Un album punk, un po’ in stile Billy Idol, Rancid, Nofx. Mi piace il sound. E poi sui testi ho lavorato molto. Un po’ di slang e un po’ di D’Annunzio, quei suoi superlativi fuori moda. I parolieri italiani sono da sempre d’annunziani».

Dei colleghi chi ti piace?

«Finardi è un grande amico, ci stiamo riavvicinando in maniera fraterna. E poi mi piacciono le bionde signore settecentesche venete. La Patty Pravo, l’Ivana Spagna, la Rettore. Sono un po’ le mie sorellone disperate. Tu pensa solo a una come la Donatella, poteva essere Lady Gaga ma non ha trovato nessuno che la lanciasse sul serio».

Progetti?

«Mi piacerebbe comporre un’opera: “La bottega del caffè”. Qualcosa di sperimentale, legato all’elettronica».

Il titolo rimanda alla tua unica esperienza sanremese nel 1984.

«Eravamo già alla canna del gas. Stava per finire il mio legame con la CBS, mi portarono lì ma mi dissero: “dopo ti devi ridimensionare”. Stamparono a mala pena il disco. Ero in un down pazzesco, sembravo in astinenza da qualsiasi cosa, avevo i nervi a pezzi e mi creai intorno tutta una mia paranoia».

Ma?

«Ma nei giardini dell’hotel una notte incontrai Patty Pravo. E fosse solo per questo, ne è valsa la pena».

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