imagesRENZO FRANCABANDERA | Sempre maggiore è in me la convinzione che il nuovo ruolo del teatro e delle arti scenico-performative in generale, forme d’arte dal vivo per eccellenza, ormai superata la dimensione Otto e Novecentesca e i suoi portati ideologici dai contorni così definiti, si avvicini moltissimo a quello della filosofia, ovvero diventare un campo di studi che si pone domande e riflette sul mondo e sull’uomo, indaga sul senso dell’essere e dell’esistenza umana e si prefigge inoltre il tentativo di studiare e definire la natura, le possibilità e i limiti della conoscenza, allorquando l’uomo, soddisfatte le immediate necessità materiali, cominci ad interrogarsi sulla sua esistenza e sul suo rapporto con il mondo.

Le questioni sono profonde e lo spunto mi è stato fornito dalla programmazione del recente festival Drodesera, organizzato, come ormai da decenni, da Fies Factory – Centrale Fies, una delle eccellenze del concepire e sviluppare le arti sceniche e performative in Italia: prendiamo tre spettacoli, Motus con “Nella Tempesta”, Antonio Latella/Compagnia Stabilemobile al debutto nazionale di “A.H.”, e Romeo Castellucci con “Attore, il tuo nome non è esatto” (già presentato in forma di studio alla Biennale 2011 di Venezia). Ad alcuni giorni dalla fruizione, queste visioni ci paiono esemplificare la declinazione del filosofico nell’azione e nella prassi scenica oggi.

Si riconosce generalmente che le domande di carattere universale, il problema del rapporto tra l’individuo e il mondo, tra il soggetto e l’oggetto, vengano trattate dalla filosofia secondo due aspetti: il primo è quello della filosofia teoretica, che studia l’ambito della conoscenza, il secondo è quello della filosofia pratica o morale o etica, che si occupa del comportamento dell’uomo nei confronti degli oggetti e degli altri uomini, fino ad arrivare alla declinazione politica del pensiero.

Con questa suddivisione in macro categorie logico filosofiche vorremmo interpretare il fare arte da parte dei registi attraverso gli spettacoli menzionati: alla prima apparterrebbe il lavoro di Castellucci, tutto interno al tema del conoscere, del vero e del falso, della dimensione del sensibile, del materiale e dell’immateriale, ovvero di quella partizione che certa scuola semiotica italiana propose fra materiale e immaginario. Il daimon di questo spettacolo è Artaud: in un ambiente di luce naturale ma reso rosso dalla schermatura delle finestre, alcune attrici interpretano momenti di possessione “demoniaca”, come quella che dovrebbe essere dell’attore. Ma sono voci di possessione o registrazioni di Artaud? Cosa è naturale e cosa è schermato? Sotto quale luce vediamo e assistiamo al fare spettacolo oggi, sembra chiederci Castellucci, giocando forse anche sul ruolo antifrastico fra questa proposta sul daimon e quella del “Volto del figlio di Dio”, che tanto scalpore e fervore religioso era riuscita a suscitare.

nellatempestaAlla seconda macro categoria, quella pratica e poietica apparterrebbero, in questo suddividere, i due spettacoli di Latella e Motus. Siamo consapevoli dell’azzardo argomentativo e vogliamo circostanziare l’argomento a questo momento e a queste proposte artistiche, visto che, come per la filosofia, anche per il teatro non può darsi una definizione ultimativa e specifica: ogni pensiero sul teatro include, infatti, al suo interno una ridefinizione del concetto di arti sceniche, e la riflessione generale stessa sulle arti muta per il contenuto sempre diverso del fare arte, che evolve con l’evolvere della società e delle abitudini del genere umano. Su questo riprendiamo per esemplificare quanto diceva Aristotele stesso: “È giusto anche chiamare la filosofia (philosophian) scienza della verità, poiché di quella teoretica è fine la verità, mentre di quella pratica è fine l’opera (ergon); se anche infatti i (filosofi) pratici indagano come stanno le cose, essi non considerano la causa per sé, ma in relazione a qualcosa ed ora”.

Se dunque Latella e Motus possano essere, in questo tempo del loro indagare, identificati come esponenti di una sorta di filosofia pratica del teatro, cerchiamo di capire in che termini e dove sono le differenze, a nostro avviso.

La restituzione della dimensione spettacolare ad una valenza pratica, sembrava essere stata messa in crisi da talune tendenze della cultura contemporanea, che ritenevano superate le indagini ideologiche novecentesche (quelle à-la-Brecht ecc, per intenderci e semplificare in forma quasi banale).

Ma nell’ultimo trentennio del Novecento, una parte importante della produzione ha invece inteso in vario modo continuare a proporre una dimensione pratica del fare arte, e attraverso quella incidere sull’ambito “politico”. Guardiamo al caso di collettivi come il Living Theatre, e al recentissimo forte legame fra Judith Malina e i Motus, che ha portato a spettacoli più marcatamente “politici” del duo Nicolò/Casagrande. Riterremmo le loro questioni sul fare arte vicine ai temi dell’etica applicata.

Latella invece ha una portata meno immediatamente correlabile alla sfera politica, a cui però arriva per deduzione: il pubblico, infatti, nei suoi spettacoli resta pubblico, non viene portato in scena, non ha un ruolo attivo nell’azione teatrale, diversamente da quanto avviene in tutto il “progetto Antigone” dei Motus, fino ad Alexis, e poi nel finale de Nella tempesta (simile per certi versi a quello di Alexis, appunto). Motus sceglie da alcuni spettacoli di porre al centro il tema del fare, e del fare collettivo in particolare: all’azione collettiva come declinazione del pensiero ha chiamato il pubblico in più d’uno spettacolo, e in questi ultimi esiti in forma molto chiara. Più sfumato il tema del sostrato ideale che possa consentire poi a questo insieme di persone di continuare in forma collettiva ad incidere nella società. Immaginiamo la risposta sia interna al background culturale e politico del duo registico e senza’altro in “Nella Tempesta” il tema è da certi punti di vista meno enfatizzato che nel precedente “Alexis”, ma resta aperto perché non necessariamente ogni aggregazione di più individui mossi da un comune sentire è di per sé un valore.

L’argomento, con una combinazione davvero sorprendente, lo sviluppa sempre a Dro l’A.H. di Latella, la cui posizione sull’agire dell’uomo nel suo tempo appare evidentemente diversa (posizione che sembra restare abbastanza coerente nel tempo, attraverso le indagini su miti teatrali e letterari, da Medea ad Amleto, fino a Don Chisciotte e al Don Giovanni).

Questa posizione rivendica l’uso filosofico della ragione come tecnica più appropriata per rendere lo spettatore autenticamente libero, nel tentativo di svilupparne la riflessione razionale.

“A.H.” che ha un excursus tutto interno al filosofico e al rapporto fra l’uomo, la politica e il suo tempo, marcatamente vuole parlare del concetto di male (prima da un punto di vista esegetico, prendendo spunto dal momento della creazione biblica, “In Principio…Bereshit…”, la prima parola della Torah che inizia con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico; e poi da quello morale, indagando non solo sulla figura di Hitler ma sulla fascinazione irrazionale sulla popolazione tedesca della persona e del personaggio).

La questione sollevata da Latella con il suo spettacolo risulta della massima importanza, non solo dal punto di vista spettacolare (spesso lo spettatore è sottoposto ad estenuanti prove di pazienza, con gesti affidati all’attore e allungati fino allo spasmo), ma anche in una prospettiva schiettamente teoretica. Abbia ragione o no, certamente Latella mette in guardia dalla tentazione di assumere la chiamata al momento collettivo come stile o cifra, disgiunta da una necessaria struttura razionale argomentativa, ma anche da un’indagine sull’irrazionalità delle dinamiche di massa, capace di rendere accettabili concetti altrimenti ripugnanti, come quello di violenza, di male, di schiavitù, ma che in più di un’occasione storica hanno ridotto l’uomo, complice la dinamica di massa, allo stato di burattino. La conclusione dello spettacolo tenta di congiungere la riflessione storica -le tragiche esecuzioni dei lager e la cenere dai camini dei campi di concentramento- con quella teoretica, ovvero il biblico “esser cenere” riferito al genere umano rispetto allo stato divino. Sempre che un dio esista.

1 COMMENT

Comments are closed.