RENZO FRANCABANDERA | “Ebbene sì, in tutta onestà credo di poter dire che…” Beh, allora parliamone. Dopo undici anni, mentre si dibatte su quale sia davvero l’eredità, se c’è un’eredità da dividere, e soprattutto su chi (e se ci) sono gli eredi, per la neonata casa editrice FaLvision di Bari, è apparso a marzo un piccolo volume, “Figli di B.: ad una voce per il teatro”, antologia fra teatro, cinema e musica dedicata a Carmelo Bene. Ne è curatore Carlo Coppola, ricercatore dalla variegata formazione in ambito teatrale e cinematografico, che ha cercato di coniugare le intuizioni di chi si è formato nella pratica attoriale e drammaturgica guardando a Bene come fonte di ispirazione, con riflessioni maggiormente sistematiche. Autori della pubblicazione insieme a Coppola sono alcuni protagonisti del teatro italiano e non solo, per lo più giovani: Carlotta Vitale di Gommalaccateatro, Vincenza Di Vita, Mariano Dammacco, Roberto Latini, Giuseppe De Trizio e Pierluigi Ferrandini.
Coppola, cosa possiamo iniziare a togliere al mito di Carmelo Bene per vedere meglio vizi e virtù dell’artista?
Dipende da chi siamo e come intendiamo leggere l’opera di Carmelo Bene. Per molti aspetti, credo sia giusto continuare a mantenere vivo il mito e l’ “incomprensibilità di cui esso si nutre”, così che i perditempo si tengano alla larga. In generale credo che demitizzare sia un peccato gnoseologico quanto quello di mitizzare. Allo stesso tempo occorre puntare proprio i temi essenziali dell’esperienza beniana: la matrice salentina, il rapporto con l’Assoluto, con la Comunicazione e quello con la Morte debbano essere i punti di partenza. Il resto è pettegolezzo, lasciamolo alle servette.
In che cosa la redazione del suo libro l’ha aiutata in questo obiettivo e ci dica se ritiene di averlo raggiunto.
Figli di B.: è un tentativo di riunire una serie di “seguaci” di Bene. Artisti che in qualche modo si siano imbattuti in lui per ventura o per scelta. Amare Carmelo Bene, in vita e in morte non è cosa facile, bisogna essere disposti all’Assoluto, come rispondere ad una chiamata vocazionale. Si ci imbatte per caso in questo Monumento, magari si cerca di staccarsi da esso, ma a fatica. Questo libro in qualche modo è una sorta di antidotum, nasce dall’esperienza pratica di Artisti nel voler Proclamare e in qualche modo Stigmatizzare quanto di C.B. che c’è in loro. Anche per questo tale lavoro non può dirsi definitivo.
C’è del Bene più nel teatro contemporaneo o nell’arte e nei nuovi linguaggi? E che c’è di Male nel teatro e nell’arte contemporanea?
Come molti autori della nostra letteratura, Carmelo Bene non poteva pensare ad una eredità. In modo molto più ardito pensava alla clonazione, ma questa è un’altra storia. Ciò che persiste di lui sono schegge, temi, vocalizzi come di cantante lirico, o voli. Ognuno dei miei compagni di questa pubblicazione ha una diversa idea o un motivo proprio per appartenere all’ “Ordine dei Carmeliani”. Ma per rispondere più compiutamente rispondo con le sue parole dette d’Amleto: “Più tardi mi s’accuserà d’aver fatto scuola. Come sono solo! E quest’epoca non c’entra nemmeno un po’.”
Si può parlare di Bene senza rischiare di annoiare o sembrare un po’ retrò? I personaggi totalizzanti ritiene possano essere misura del tempo presente o studiarli serve anche ad andare oltre? E se si cosa c’è oltre Bene?
Personalmente rifuggo dall’idea totalizzante di esemplarità dell’arte, dalle balene rosse o bianche e dai pachidermi inattaccabili. Per questo studiare C.B. è un rischio anche per me. So che per alcuni è ostico, oltre che antipatico: ben pensanti, snob, per i radical chic, o semplicemente per chi si rifiuta. C.B. è la quintessenza dell’intellettualità meridionale, nella sua accezione più europea. È molto più vicino a Giordano Bruno, e G.B. Vico di quanto non lo sia Dario Fo o a B. Bertolucci, che pure stimava. Oltre Carmelo Bene c’è altra ricerca che parte o meno da lui. Egli ha né mostrata, negandone il pedagogismo, il resto tocca ai nostri contemporanei.
Quello che lei ha trovato nel suo libro è un Bene umano, troppo umano o disumano? E’ giusto che chi fa arte ambisca ad una vita del genere o la ritiene una ricetta estrema e pericolosa, e che solo rarissime eccezioni possono permettersi di indossare un abito come quello? In tal caso gli altri dovrebbero astenersi, in quanto fondamentalmente mediocri (come Bene spesso sottolineava) o esiste un giusto anelito dell’uomo a vivere una sua dimensione creativa sollevata dal giudizio?
Parlare di ritrovamento mi piace meno, e preferisco parlare di esiti di una ricerca e diciamo pure parziali. C.B. pare scherzasse sul suo cognome e sul non portare fiori alla mamma o alla zia per le feste comandate ribadendo lo slogan “Non Fiori ma opere di Bene”. Ho concepito questo volume come una testimonianza di affetto, per Lui morto e per coloro che gli sopravvivono, parenti, amanti, amici. Quanto alla mediocrità, di cui mi si chiede, di fronte al sua cultura enciclopedica e alla originalità della sua sua sintesi perfetta di arte e vita, chiunque è pressoché cieco, sordo e muto, storpio, oltre che stitico. Qualcuno lo è meno di altri, ed io, da curatore di un’antologia, ho puntato e scelto proprio questo qualcuno. Ho cercato di creare una sorta di Canone beniano, come anticamente si faceva nelle Accademie, e per vocazione tutti gli invitati anno risposto alla chiamata.
Bene era un genio? O una persona con una lancinante solitudine che ha chiamato poesia?
Ebbene sì, in tutta onestà credo di poter dire che Carmelo Bene fosse un genio, che avesse capito, come e più di altri che il teatro e l’arte, quindi la poesia, hanno a che fare con l’Assoluto, con il Sacro, non in senso religioso, ma in termini di Metafisica certamente. [Con Lorena Liberatore, l’anno scorso Coppola ha tracciato un profilo del Salento Metafisico di Carmelo Bene, sempre per l’editore FaLvision ndr] Il suo genio, a mio avviso, sta nell’aver colto in un modo lucido questa relazione trascendentale, un po’ come accade nel kathakali, forma espressiva di teatro-danza indiano. Per noi occidentali vedere il connubio tra Arte e Assoluto è difficile, ma Bene era pugliese e salentino, teso ad oriente per costituzione, forse anche per questo a lui era più chiaro. Per lo stesso motivo era famelico e bisognoso di affetto, come poche persone di cui io abbia sentito parlare.