IGOR VAZZAZ | È sorte contemporanea, nell’era della TV post-generalista e del consumo individualizzato, assistere al sorgere di fenomeni di culto senza poterli monitorare, calati come siamo nell’ineluttabile dimensione dell’inseguimento fuori tempo massimo. L’estate 2013 non s’è dimostrata avara in tal senso e, tra le perle di cui dar contezza, v’è un’acuta rielaborazione del format, ormai bollito, del cooking contest: diciamo di Unti e bisunti, rapida trasmissione su DMAX che, da giugno, dopo poche puntate aveva già catalizzato l’attenzione di neofiti aficionados e critica incuriosita.
Il nerboruto Chef Rubio, al secolo Gabriele Rubini, frascatano, classe ’83, ex rugbista di livello (giunto al massimo campionato nazionale), trascorsi da migrante (un anno in Nuova Zelanda a giocare e lavorare come cuoco), s’aggira per l’Italia alla scoperta dei più peculiari esempi di street food, il cibo, tipicamente grasso e untuoso, che da tradizione popola e spopola per le strade della Penisola.
Bando a conta di calorie, sguerguenze o palati da signorine, ché l’ex terza linea divora senza tema ogni tipo di cibaria gli si paventi: rane in umido, cacciucco, lampredotto, in un sistematico e pantagruelico rapporto di conoscenza del cosmo, mediato dalla percezione gustativa.
Giunge in loco, Rubio, baffo dalinien, corporatura fisicata, e s’aggira guappo per le strade, saggiando qua e là alla cerca del piatto. Individuata, per tipicità e sprezzo della dietologia, la pietanza regina, sceglie, con fare guascone e verace interesse gastronomico, l’avversario cui gettar il guanto di sfida, “investendo” una giuria, costituita quasi sempre da maschi e indigeni consessi di buone ganasce (squadre sportive, moto club, associazioni di camionisti). Qui il contest: la narrazione si biforca sui due avversari, la scelta degli ingredienti, l’irrinunciabile cimento culinario, sino alla prova del piatto, la mangiata collettiva, sociale, coronata dall’insindacabile verdetto dei giurati. I quali, giusto rammentarlo, risultano alquanto indipendenti.
Lo stile del racconto è un trionfo di luoghi comuni furbescamente parodizzati: dall’hip hop (la colonna sonora e la sfida simile alle battle tra rapper), ai consueti programmi di cucina, svolti in studi asettici distanti dagli scenari suburbani di Unti e bisunti, sino alla pornografia, campionandone il linguaggio visivo per le sequenze d’assaggi, con l’insistito indugio sul dettaglio, lo zoom iperbolico, la raffigurazione più esplicita e materica del cibo, tra fibre in disfacimento e untuosità a corredo. Il tutto sarebbe niente senza la complicità tamarra di Rubio, gli ammicchi allo spettatore da sedurre e condurre alla (ri)scoperta d’un paese che, forse, può ancora rinunciare al fast food senza per questo impantanarsi nelle barocche autoreferenzialità dello slow.
Gambero Rozzo alla uozzamerican, Unti e bisunti ci pare interessante figura del new cafonal contemporaneo, calibrando con studio narrazione e coloriture (Rubio è una via di mezzo tra il Verdone d’antan e il triste Piotta, il più finto dei tamarri), risultando “moderno” senza abdicare a quel poco di spocchia per rivolgersi da pari a pari agli interlocutori d’ogni puntata. Del resto, Rubio, come tamarro, è una sorta di ogm, ché chef lo è davvero, almeno sulla carta: diplomato all’ALMA (istituto di alta cucina diretto da Gualtiero Marchesi), rappresenta un caso assai peculiare di turista gastronomico, tutt’altro che sprovveduto o ingenuo. Questione di racconto, facciamocene una ragione: è l’Italia odierna, del resto, anodinamente fiera della cafonaggine, un tempo da celar con vergogna, oggi attributo, benché falso o artefatto, da ostentare comunque (pensiamo a Daniela Santanché nelle sue versioni da improbabilissima virago del popolo), con sprezzante e sbarazzina fierezza.
Buon appetito. Anzi, no: buon pro.
Se volete dare un’occhio alle puntate, qui il link
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