guaritore

VINCENZO SARDELLI | Un patrimonio da custodire, Tramedautore– festival internazionale della nuova drammaturgia, kermesse di scena dal 13 al 22 settembre al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Quest’anno il festival, diretto da Angela Calicchio e Tatiana Olear, è stato dedicato per metà al subcontinente indiano con spettacoli teatrali, letture sceniche, musica, installazioni e film. L’altra metà della rassegna, intitolata La Giovine Italia al tempo della crisi, ha riunito dieci spettacoli italiani di drammaturghi contemporanei.

Da una parte un’occhiata al Sud del mondo, letterature e drammaturgie in via di sviluppo in ogni senso. Dall’altra una riflessione italiana, rappresentativa della crisi globale, sul fallimento del modello del Nord-Est: disoccupazione, imprenditoria imbrigliata, scelte estreme fino al suicidio.

Da riproporre, Tramedautore. Perché l’intercultura è ricchezza e destino, specie nella Milano proiettata verso l’Expo, seconda solo a New York per numero di consolati e ambasciate.

Anche da rilanciare, Tramedautore. Che non può limitarsi a contenitore generico. Non ci si ferma alle buone intenzioni di un «cammino verso una nuova idea di cittadinanza» (Sergio Escobar, direttore del Piccolo). Non basta come chiave di lettura l’improvvisata direttrice India-Nord Est italico: «la multiculturalità, quella che viene definita la nuova povertà; la caduta degli dei rispetto a un’economia forzata» (Angela Calicchio). Il teatro dev’essere incontro reale e prodotto artistico. Altrimenti diventa moralismo didascalico, come la pittura sovietica durante la Guerra Fredda.

Questo festival era privo del quid assoluto, di una proposta che rinsaldasse il tutto.

Ha deluso lo spettacolo indicato come cavallo di battaglia, quello che doveva sublimare l’incontro tra culture, arti, professionalità. Parliamo di Borderline, soggetto dello scrittore pakistano Hanif Kureishi, traduzione quadrumane dell’inglese Margaret Rose e dell’italiano Salvatore Cabras, regia dell’albanese Ana Shamataj, cast multietnico, tre scenografi, quattro consulenti, tre collaborazioni di spessore (Università di Milano, Scuola Paolo Grassi, Teatro Piccolo Orologio di Reggio Emilia). Invece mancava più di un soldo per fare una lira in questo racconto della comunità pakistana in Inghilterra ai tempi di Margaret Thatcher. Molto rumore per nulla. A partire dal testo, datato 1981. Solite tensioni sociali di sottofondo. Solito amore interetnico contrastato. Solite oscillazioni tra desiderio d’integrazione e riflussi nostalgici da cuore emigrato. Solita giornalista occidentale idealista in cerca di squarci su sofferenza e sfruttamento. Solito stereotipo degli inglesi pallidi e malaticci. Compresa quella cattivona della signora Thatcher, la cui maschera sardonica faceva capolino su grotteschi torsi maschili, ed era, ahinoi, l’unica trovata registica di rilievo. Qualche battutaccia volgare doveva servire a tirarcelo su, l’umore. Uno spettacolo davvero borderline: tutte le volte che provava a decollare rischiava d’affondare, zavorrato anche dalla recitazione parrocchiale dei giovani attori.

Meglio il teatro italiano. Come il Guaritore, bel testo di Michele Santeramo già recensito su PAC, trama di dialoghi serrati e orditi senza fiato, pantomima di sogni e deliri, di storie che s’incrociano e delineano soluzioni. Solo qualche stallo qua e là, quando i dialoghi diventano monologhi, quando le alchimie taumaturgiche del guaritore (che sana gli altri e perde se stesso) diventano un minimo pedestri.

Buono Babel City, testo dell’(italo) brasiliana Ana Candida De Carvalho Carneiro sull’Occidente in crisi, amara riflessione sul business che fagocita valori e genera solitudine, sull’intreccio di sentimenti malati e posti di lavoro che naufragano insieme a solidarietà e fratellanza. La regia di Sabrina Sinatti armonizza forme e contenuti, dosa musiche e luci. Anche se è un po’ statica la scansione delle scene. È ancora geometrica, spigolosa, con i cinque protagonisti, legati in cerchio l’un l’altro da un filo sottile, che compaiono in sequenze a due a due sulla scena. Vanno aumentate le foto, proiezioni non didascaliche, sullo sfondo. Vanno rifiniti cambi d’abito e mimica, danza ed elementi surreali. Si può rendere la pièce più dinamica caricando il registro grottesco, rimpolpando nella colonna sonora quel po’ di rock capace di dare la scossa. Sono dettagli, la materia prima c’è.

Chiusura in bellezza con Senza Niente dei mantovani di Teatro Magro. I due monologhi di Marina Visentini (Il Presidente) e Andrea Caprini (L’Amministratore), con la regia di Flavio Cortellazzi, sono intensi e vibranti. La comicità è intelligente, si riempie di variazioni e citazioni d’autore, unisce fiaba e cronaca. Denuncia con vivacità il desolante panorama del teatro contemporaneo italiano, la crisi della Cultura, l’assenza di risorse economiche, la latitanza delle istituzioni e dello stesso pubblico (pagante). Non latitano, invece, fantasia e abilità attoriale dei protagonisti.

Tramedautore: speriamo, l’anno prossimo, di ripartire da questo livello.

3 COMMENTS

  1. Peccato che non hai visto “Prima o poi cadrà la pioggia”, c’era anche Teatro Invito…

  2. Hai ragione Elena. Purtroppo non sempre “si può ciò che si vuole”. Comunque gli spettacoli italiani mi hanno ben impressionato!

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