alaskaVINCENZO SARDELLI | Silenzio assordante di camera d’ospedale. Attesa ibernata. Una donna sulla quarantina giace inerte in un letto, gli occhi chiusi in un lancinante rigor mortis. Il busto è sollevato. Il volto svuotato è perpendicolare al pubblico che entra in sala e si dispone attorno sulla scena, a distanza ravvicinata.

È un rito iniziatico o sacrificale? A collegare donna dormiente e pubblico entrante un barbuto uomo elegante sulla cinquantina, in attesa, appoggiato a un freddo tavolo lucido di fòrmica verde e di metallo.

È questa la cornice nuda in cui il regista Valerio Binasco racchiude Una specie di Alaska, terribile e straniante commedia di Harold Pinter che abbiamo visto al Teatro Libero di Milano.

La protagonista Deborah è rimasta in stato comatoso per quasi trent’anni. Si risveglia, convinta di andare alla festa del suo quindicesimo compleanno. La festa non c’è. Non c’è il padre. Non c’è la madre, che le aveva preparato il vestitino per l’evento. A traghettare Deborah verso la realtà sono un dottore amico di famiglia, che ha sperimentato su di lei una nuova cura, e la sorella prediletta.

Tra sguardi allucinati e risate infantili, tra vezzi puerili, accessi d’ira e strazianti lampi di coscienza, Deborah compone davanti a sé il puzzle della propria sconclusionata vicenda. Che personaggio complesso propone Sara Bertelà. Quante torsioni, sorrisi dolorosi, lacrime attraverso quegli occhi affossati e arrossati, birichini e assorti.

Una performance intensa eppure di una semplicità disarmante. Statica, asciutta quanto a impatto scenico. Eppure straordinariamente dinamica grazie a una recitazione sopra le righe, tra cenni di mimo e danza, sprazzi ironici e assurdo, in cui è impossibile tracciare il confine tra attore e personaggio.

Luci spietate sottolineano orbite vuote, scavate dalla malattia e dal tempo. Il pallore fatica a sciogliersi, come i dubbi mortificanti di Deborah che non afferra il senso di quanto le è accaduto. Note di pianoforte come stille di una flebo danno corpo al dialogo maieutico tra la donna e il dottore (Nicola Pannelli). La verità è una radiografia su una lastra sfocata. Neppure la comparsa della sorella (Orietta Notari) è risolutiva.

Chiusure, silenzi, sfoghi. La paura di guardarsi allo specchio di Deborah, l’impatto devastante con una normalità persa per sempre, è metafora della condizione dell’uomo, costretto ogni giorno a ripensarsi, morire e rinascere qualcosa di nuovo e diverso. La pièce è rappresentativa anche di una certa crisi del ruolo dello scrittore, del tutto distante dal mito romantico del poeta mago, dell’autore onnisciente.

Ambiguità, pause, senso dell’inadeguatezza espressiva sono la sostanza di questo testo, che raramente si colora come la coperta di lana ricamata variopinta con cui Deborah tenta invano di scaldarsi. Un metronomo scandisce il rifluire del tempo, gocciolio insistente di un rubinetto che batte a vuoto.

Piana, sottovoce e sottotono, la recitazione di Pannelli e Notari mette in risalto ancora di più il ruolo incisivo di Deborah-Bertelà. Consente agli spettatori di identificarsi, passo dopo passo, con la paura di scoprirsi fantasmi.