LAURA NOVELLI | Ottocento spettatori a sera, millecinquecento presenze nei week-end, ricca partecipazione agli incontri e ai dibattiti: l’ottava edizione di “Short Theatre” (svoltasi dal 5 al 18 settembre negli spazi de La Pelanda, a Roma) si è chiusa con un bilancio assolutamente positivo, affermandosi come un appuntamento ormai irrinunciabile dell’offerta spettacolare capitolina. Irrinunciabile tanto più in un momento storico in cui a rinunciare sono in molti e in cui la mancanza di risorse economiche rischia di paralizzare gran parte delle attività e delle iniziative culturali. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Arcuri, curatore della vetrina e caparbio teatrante intenzionato a non mollare. A non rinunciare.
Come sei riuscito, in una situazione così disastrosa come quella attuale, a mettere in piedi questa nuova edizione di Short Theatre?
Contando su una squadra che lavora insieme da anni e che crede nel progetto. Abbiamo lavorato accontentandoci di un semplice rimborso spese, facendo leva sulla volontà delle persone e chiedendo agli artisti di testimoniare la loro presenza a budget molto ridotto. C’è poi da dire che la rete di contatti internazionali tessuta negli anni scorsi ha portato i suoi frutti. All’estero, malgrado la crisi ci sia, si avverte meno ed esiste ancora una progettualità europea in cui noi italiani potremmo inserirci con maggiore facilità se non avessimo tanti impedimenti dovuti al sistema. Il rapporto con le istituzioni, infatti, non ci aiuta in questo, perché non sappiamo mai se riusciremo ad usufruire di determinati fondi e ciò ci limita nella partecipazione ai bandi della Comunità Europea. Credo che le istituzioni italiane non abbiano ancora capito che a noi artisti non serve l’assistenzialismo ma maggiore elasticità per permettere alla creatività italiana di avere un respiro internazionale.
Il cartellone di quest’anno è stato non solo ricco di presenze straniere ma ha anche focalizzato l’attenzione su alcuni progetti emblematici in questa ottica transnazionale. Su che binari si muove Short con l’estero?
Come ho già detto, i rapporti con l’estero sono un’opportunità che non va sprecata e che anzi va urgentemente incentivata. I tre contenitori di “Fabulamundi”, “Transarte” e “Finestate Festival” rappresentano, ad esempio, tre modalità per resistere alla crisi in modo costruttivo, garantendo alle compagnie estere una circuitazione in Italia ma anche studiando modalità per cui il nostro teatro possa trovare delle prospettive in Europa: una visibilità di rilievo e circuiti distributivi adatti agli specifici lavori.
Entrando nel merito di queste iniziative, possiamo tracciarne brevemente la fisionomia?
Per quanto riguarda “Finestate Festival”, Short è capofila del progetto. Si tratta di sei realtà italiane, sei rassegne estive, che hanno creato una sinergia al fine di innescare opportunità di scambio e promozione delle culture teatrali. Il percorso è un po’ tutto da costruire ma già abbiamo ottimi esiti. “Fabulamundi. Palywriting Europe” è invece un piattaforma che ci vede partner in seconda battuta perché il leader italiano dell’iniziativa è la società di progettazione culturale PAV. L’idea è quella di realizzare un programma interamente dedicato alla promozione della drammaturgia contemporanea. Vi partecipano venti realtà europee, o vicine all’Europa, e la prima riunione, cui hanno partecipato personalità emblematiche della scena attuale, si è svolta proprio all’interno di Short Theatre. Infine “Transarte” (IYMT , International Young Makers in Transit), di cui siamo partner dal 2010, costituisce una network di festival europei di teatro e danza sempre studiato a sostegno dei giovani artisti. Insomma, l’obiettivo di questa ampia progettualità con l’estero non è solo quello di trarre economie dall’Europa ma di pensare proprio ad una circuitazione europea dei lavori e delle compagnie.
Anche in questi progetti si può dunque intercettare quella contaminazione di generi che caratterizza da sempre Short Theatre?
Il risultato positivo della vetrina, in termini di affluenza e di adesione da parte del pubblico, credo sia dovuto proprio al fatto che Short contiene generi diversi, dal teatro alla danza alla performance. Anche i momenti di dibattito e il dj-set conclusivo delle serate sono stati molto frequentati. Segno che la trasversalità ripaga sempre in iniziative di questo tipo. E quando parlo di trasversalità alludo anche alla contaminazione tra generazioni artistiche diverse. Nell’ultima edizione abbiamo messo insieme, solo per fare qualche esempio, Babilonia Teatri e Lenz Rifrazioni, Fanny & Alexander e Teatro Sotterraneo. E non è un caso che siano venuti a trovarci molti giovani ma anche spettatori di età più mature.
Perché hai scelto un titolo come “Democrazia della felicità” ?
Ovviamente il titolo è preso dalla Costituzione americana, documento che riconosce la felicità come un diritto fondamentale del cittadino. Abbiamo pensato a questo tema riflettendo sull’idea di futuro. Su come, cioè, il teatro, il nostro lavoro possano cambiare il mondo, la società, e migliorare noi stessi. Short si propone da sempre di creare un territorio di pensiero che persegua questo scopo, che è poi il fine ultimo del nostro fare teatro. Credo che perdere di vista la natura politica del nostro impegno artistico significhi perdere di vista il senso stesso del teatro.
In quest’ottica va anche inquadrata l’attenzione posta sul ruolo degli intellettuali nel ciclo di incontri curati dai Quaderni del Teatro di Roma. Cosa è emerso da questi dibattiti?
Il titolo di questa iniziativa era: Cosa possono fare le parole. Un futuro senza intellettuali? Dunque, essenzialmente una domanda. Ci siamo chiesti: perché le parole della politici riescono, nel bene e nel male, a cambiare il mondo mentre quelle degli intellettuali no? Ci è sembrato opportuno tentare di rispondere definendo uno spazio, un territorio appunto, in cui convogliare una collettività che si riconosce; un gruppo di persone che non si ritrovano se stesse nelle parole della televisione ma in quelle del pensiero, della riflessione, degli intellettuali appunto.
Da qualche giorno il teatro Valle occupato ha visto riconosciuto il su statuto di Fondazione. Come commenti questa vicenda?
Senza una politica culturale che regolamenti lo spettacolo dal vivo e che arrivi a determinate scelte attraverso tavoli di discussione condivisi, c’è solo da sperare che cose del genere succedano spesso. Non vedo cosa altro debba accadere per far cambiare il sistema. Non ho seguito tutti i passaggi della vicenda ma, come teatrante, non posso che essere lieto che si sia riusciti a scippare uno spazio artistico all’ennesimo centro commerciale. Certamente non si può negare che l’occupazione di un teatro come il Valle sia un gesto forte e non so se il luogo fosse quello giusto. Però, se in futuro si parlerò di cose importanti, lo si dovrà senza dubbio anche ad azioni di questo tipo.
Veniamo ora ad Arcuri regista dell’Accademia degli Artefatti. Proprio a Short 2013 avete presentato due lavori: “Villa Dolorosa” della tedesca Rebekka Kricheldorf e “Io, Fiordipisello” di Tim Crouch. Progetti futuri?
Fino al 2015 porteremo in tournée vecchi lavori e quelli debuttati all’ultima Biennale di Venezia (il progetto “I Shakespeare”, ndr). Diciamo che come compagnia ci troviamo ad un punto in cui le necessità espressive non corrispondono alle caratteristiche economiche. Motivo per cui, da regista, preferisco fare pochi lavori e prendermi tempi lunghi, in attesa di attivare nuove strategie produttive.
E l’Arcuri organizzatore e operatore che cosa farà nei prossimi mesi?
Continua la mia collaborazione con il teatro della Tosse di Genova, alla quale tengo molto. E poi ovviamente inizierò presto a tessere nuove relazioni internazionali in vista di Short 2014.