RENZO FRANCABANDERA | “Domani sera vado all’Out off a vedere “Thanks for Vaselina” – mi scrive un’amica qualche minuto fa, mentre sono ancora intento a scrivere due pensieri sul nuovo spettacolo di Carrozzeria Orfeo in scena in questi giorni a Milano – Lo hai già visto?
io: Ieri. Ne sto scrivendo
lei: Com è? O ti leggo domattina?
io: Scritto bene, recitato bene, non rivoluzionario ma divertente.
lei: Ok
io: Una roba fra Spregelburd, Almodovar e una sit com scorretta in cui si sente odore di maria dall’inizio alla fine dello spettacolo
lei: Odore di Santa Maria?
io: non proprio…
Cosa è stato in questi anni il progetto Carrozzeria Orfeo e come arrivano il drammaturgo Gabriele Di Luca e gli altri membri storici della compagnia Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi, a Thanks for Vaselina? E’ il 2008 e con Sul Confine vincono il Dante Cappelletti e sono selezionati fra i finalisti di Kilowatt. E’ un anno in cui riescono a proporre la loro semplice ma ben congegnata storia ad un pubblico nazionale. Nessuno di loro è forse un mattatore di scena (magari qualcuno sta crescendo bene) ma questo consente di sviluppare drammaturgie orizzontali, popolate da personaggi comuni.
E storie domestiche, di strada, sono quelle che poi Di Luca proporrà anche nei successivi Idoli, Robe dell’altro mondo e Thanks for Vaselina, vicende metropolitan-periferiche, raccontate attraverso gli occhi, i gesti e le parole di gente normale, proprio come in quella drammaturgia latino-americana che sta invadendo i nostri teatri (a volte anche senza ragione, come il giocatore pacco ma esotico della tua squadra del cuore).
Se Idoli resta il primo tentativo più strutturato di drammaturgia a incastro e Robe dell’altro mondo è il confronto con l’uso della maschera, Thanks for Vaselina è una sfida drammaturgica almodovariana, simpsoniana quanto a scorrettezza, in cui i protagonisti parlano esattamente come gli abitanti di un caseggiato proletario, fra coltivazioni domestiche di maria, madri disadattate dipendenti di slot machine (Beatrice Schiros), giovanetti protorivoluzionari (Massimiliano Setti) pronti a telare non appena si sente puzza di guaio, adolescenti grassocce e stordite, suggestionate dalla psicomagia e da Jodorowsky (Francesca Turrini) e derise per tutto il tempo nella loro debolezza.
La risata cattiva condisce tutto. Di fianco a me una spettatrice un po’ in carne, forse anche lei come la protagonista per questioni di metabolismo, odia lo spettacolo per tutto il tempo e vorrebbe scappare, ma la sala è piena e così resta livorosa a seguire la storia di Pastasciutta che si fa infilare degli ovuli di maria su per il culo, sperando di riuscire a portarli così in Messico, per salvare con il ricavato il suo fratello down dalle angherie domestiche. Dal Messico ritorna invece il padre (un efficace e poetico Alessandro Tedeschi) del coltivatore diretto di thc (Gabriele Di Luca), scappato quando il ragazzo era ancora piccolo, e diventato trans, finendo in una comunità di santoni.
Ecco, una roba del genere la puoi vivere ogni giorno in Via Padova e dintorni a Milano, o all’Esquilino a Roma: non sono in fondo le abbondanti parolacce e il linguaggio grasso la nota scorretta dello spettacolo, che invece proprio per questa sincerità basica trova ascolto agevole in un pubblico molto giovane, che infatti riempie l’Out Off.
Beatrice Schiros è un acquisto cruciale per il ritmi da commedia semi-noir di “Thanks”. E’ lei il metronomo recitativo, sul suo volto scorre con la consumata abilità dell’attrice esperta, il tragico e il comico senza soluzione di continuità.
Il testo regge per tutto il tempo e, per paradosso, penetra meno allorquando, qui e lì, ha la velleità di voler penetrare di più, di farsi di tanto in tanto poetica (e forse involontaria) morale: questa storia, infatti, funziona perchè nella sua surrealtà è tragicamente reale, racconta un tempo di espedienti e delusioni, abbandoni e solitudini, e di situazioni in cui il giovane pusher prova a rifilare a qualcuno l’inculata che la vita ha molto tempo prima rifilato a lui. Ci riuscirà?
A fine spettacolo, mentre la mia vicina di posto non applaude, il resto della sala va in delirio. Penso fra me e me che è un lavoro che funziona bene, con un po’ di sana malizia drammaturgica e una rodata capacità di scrittura e di interpretazione, che potrà girare, scandalizzando anche qualche circolo ultracattolico e qualche padre Voldemort di provincia: attendiamo quindi gli articoli sul Gazzettino di Roccacannuccia, in cui il notabile borghese del luogo, da anni deputato alla notazione sulla proposta culturale del teatro cittadino, si chiederà, commentando “Thanks”, dove sia finito Il Teatro. In culo, appunto, insieme agli ovuli di maria.
E penso a fine recita, bevendo una birra con amici dal kebabbaro di Viale Mac Mahon, che in fondo, specie per le giovani compagnie come Carrozzeria Orfeo, fra le poche dal 2008 ad oggi a non essere implose (o esplose) di intellettualismi e pippe fashion, inserti video, trucco colato e tacchi 12, e tentativi di vendercela come ammorbante crossmedialità dalle tinte finto-omo, penso, dicevo, che in questo momento occorra anche far proposte che avvicinino e creino nuovi spettatori e dialoghino con il nostro tempo senza filtri ma anche senza furberie. E a questo giro, secondo me, gli è riuscita. Quasi tutto gira a tempo, come la composizione per tazzine di caffè e disadattati in penombra, una chicca assoluta.
Non è un lavoro ancora perfetto. La scenografia è didascalica, non lascia al testo la possibilità di respirare surrealtà (come invece aveva più furbescamente fatto, con Lucido di Spregelburd, Rustioni, semplicemente tenendo un tavolino fuori dal gioco dell’interno giorno, o Ronconi con La modestia, col via vai di mobili dall’ambiente fisso): quella è un po’ d’esperienza scenico-registica che alla compagnia manca.
Ecco, forse alla compagnia manca che ogni tanto la regia sia anche di qualcun altro. Così. Per sparigliare le carte. Per mischiare il sangue, consentire ad un occhio esterno alla redazione testuale di piazzare in scena il tavolino visionario dell’illusione, che tanto bene sta in queste storie: è questo il vulnus di crescita, forse il punto ancora debole di un percorso per altri versi di assoluto interesse.
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a proposito di Thanks for Vaselina_
Scrubs è meglio: i riferimenti a Dostoevskij sono diretti. In una puntata Dorian (J.D.) incarna perfettamente l’uomo del sottosuolo. Ma solo chi ha letto Dostoevskij lo capisce e l’episodio sta in piedi anche per quelli che non colgono il riferimento.
Anche Desperate Housewives è meglio. La morte di Ivan Il’ič è citato benissimo nell’ultimo episodio della prima serie senza che nessuno se ne accorga. Persino il Tony Awards 2013 per la miglior piéce è stato assegnato ad un’opera che si rifà direttamente a Cechov: Vanya and Sonia and Masha and Spike.
Gli autori americani, del Nord e del Sud, come anche gli inglesi, sono bravissimi. Non si fanno soffocare dalla cultura e rubano a man bassa dalla grande letteratura.
Gli americani e gli inglesi non sbagliano un colpo perché hanno modelli alti a cui attingono direttamente.
Carrozzeria Orfeo attinge già alla trivial culture. Cioè cita direttamente I Simpson o Scrubs senza intravedere il modello altro (e alto) che è alla sua origine.
Cita Pedro Almodovar come se fosse il capofila e non l’epigono di Cassavetes, Bergman, King Vidor, Powell e Pressburger. Cita Rafael Spregelburd senza raggiungerne la profondità.
E se invece alla base del lavoro di Carrozzeria Orfeo c’è una cultura profonda non si capisce.
Le citazioni paiono sempre di seconda mano, le battute non spiazzano quasi mai. La risata arriva e smorza qualsiasi momento di verità. Si ha l’impressione che Carrozzeria Orfeo non si abbia il coraggio di intraprendere Il viaggio al termine della notte. Si resta su quel bordo del precipizio a prendersi la piscia in faccia (o le ceneri dell’amico morto come il grande Lebowski).