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VINCENZO SARDELLI | Un racconto pieno di passione. Una scelta registica poco teatrale, statica, antidrammaturgica, monocroma. Che però restituisce lucentezza a una storia di descrizioni, paesaggi dell’anima e atmosfere.

È la poesia del testo a risaltare in queste Notti Bianche che Corrado d’Elia ha riportato in scena al Teatro Libero di Milano. Le Notti Bianche, opera giovanile di Fëdor Dostoevskij di ascendenze gogoliane, è un racconto sentimentale e allucinato. Protagonista è un giovane sognatore che s’innamora di una ragazza incontrata per caso. Ne nasce un dialogo serrato che dura per quattro notti, durante le quali sembra delinearsi la prospettiva di una vita insieme. Un sogno, che deve fare i conti con la vita reale.

Estrema la scelta di Corrado d’Elia, dopo la versione più “ricca” del Litta di qualche anno fa: la nuova versione è quella di un monologo o, come dice lui, un “album”. È un rifugio nel minimalismo, per dare risalto all’Autore, alla parola. Per “pulire”. Per enfatizzare il potere del gesto e dell’evocazione che qui, in una specie di trance ipnotica, prevale sulla recitazione.

Una messinscena nuda. Bianco lo sgabello da bar al centro del palco, dominato da un azzurro lucente (le scene sono di Francesca Marsella). Una cascata di lampadine cade dal soffitto, animando suggestioni e parole. Bianco il costume di d’Elia, scarpe e bretelle smaltate, camicia e calzoni.

Nessuna concessione a effetti speciali. Solo le luci, dosate da Alessandro Tinelli, che si accendono e si spengono, brillano e sfumano. Pochi secondi, appena uno stacco, per la voce fuori campo di Monica Faggiani. Neppure danze mimate o duetti virtuali. D’Elia recita seduto. Le variazioni sono nelle sonorità emesse dalla voce, negli occhi strabuzzati, negli sguardi, nelle mani avvolgenti.

Luce e viso, occhi affilati. Il pianoforte di Chopin e Brahms è sottofondo a un sentimento un po’ tormento spirituale, un po’ amicizia e affetto fraterno. Una storia senza preamboli né orpelli. Un racconto intimo, concitato, reso convulso da rapidità e ripetizioni, che danno risalto alle pause. È un flusso di emozioni, confessioni sommesse e sfoghi di rabbia. La voce amplificata dal microfono, fa di questa performance quasi un radiodramma, assorbe gli spettatori in un tempo sospeso. D’Elia, assistito alla regia da Emanuela Ferlito, dà corpo a due facce della stessa medaglia: all’incontro di due anime che si riconoscono, e aprendosi vicendevolmente si amano.

L’incontro non dissipa la solitudine. Il sogno nella sospensione, la speranza nell’incertezza, sono le vere vibrazioni.

La materia del racconto sfuma in una dimensione essenzialmente e convulsamente morale e religiosa. Affetti smisurati muovono “lui” e “lei”. Gli stati morbosi non degenerano nella violenza: diventano lirismo.

L’amore è declinato in mille sfumature, stanco, stravolto, ebbro, trasognato, ideale, sbagliato. Amore che è miraggio e dono, reciprocità e disillusione. È l’empatia con il pubblico, che l’attore crea in scena.

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“Le Notti Bianche” anche nella letteratura e nel cinema italiano
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