aretè ensembleCLARISSA VERONICO | Si è appena inaugurata la sede di un’associazione culturale. In pieno centro ma un po’ nascosta, senza far rumore e senza l’attenzione da eventificio che a volte, e a seconda di chi ne è fondatore, accompagna tali appuntamenti. Un’associazione dal nome un po’ sentito “Torre di Babele” solo che questa volta effettivamente le molte lingue ci sono, perché a fondarla sono 4 italiani e 4 migranti di origine nordafricana.
Ingresso pulito e una scala che porta giù, in un sottoscala appunto, ma dotatissimo di uscite di sicurezza (tocca dirlo perché non si era ancora stappata la bottiglia inaugurale che è arrivata la SIAE). Ed ecco che ci accoglie una compagnia teatrale. Sono gli Aretè Ensemble.
Non certo degli sconosciuti per chi frequenta i teatri, perché loro, cioè Saba Salvemini e Annika Strohm, di teatri e festival ne hanno girati in questi ultimi dieci anni e appartengono anche a quella “generazione pugliese” che però non è in residenza, non è in albo, non è in generazione in buona sostanza perché…perché non parlano mai della Puglia, uno ha l’accento piemontese e l’altra è norvegese, non sono sempre autori dei loro testi, non raccontano il sociale, insomma sono attori e ci mettono anche molto tempo per preparare uno spettacolo o scrivere una lettera a un critico o a un organizzatore.
L’uscita di sicurezza si apre, si chiede il silenzio e delle belle sedie rosse ci accomodano sulla rampa un po’ in salita che conduce all’esterno. Inizia X – Three e Saba Salvemini scende appunto dalla rampa. E’ sempre un po’ stralunato e dall’atteggiamento mattoide questo attore. Si presenta come X e con un “chi sono?”, una domanda insistita e sorridente, gioiosa quasi, che sembra solo per un attimo riferirsi a questioni esistenziali di altro genere. Poi invece va al muro bianco e intonso e comincia a scrivere la sua espressione aritmetica, allora è figlio di due genitori di cui scrive solo le iniziali, che sono figli di altrettante iniziali, che sono figli di altrettante iniziali e poi si scopre che queste iniziali appartengono a tanti luoghi diversi e che X è piemontese, pugliese, norvegese, finlandese, russo, thailandese, greco. Che X è figlio lontano di Dostoevskji, ma anche di Socrate e di Gengis Kahn. Che per burla è addirittura figlio di Adamo e Eva, che è nel vuoto, che nel vuoto io è Dio. Che deve uscire. Che ci vuole una uscita teatrale. Un bel pianto o una bella risata. Che sta nascendo. E va a nascere.
Mezzora divertente e ben tenuta. Saba è sempre bravo e generoso. Poi vengono i ringraziamenti e anche il pancione di Annika che evidentemente ha mosso questo X e ne ha animato le domande. Aretè Ensemble ha chiesto di rimanere dieci giorni in questo spazio, per fare ogni giorno la performance, per farsi nuove domande, cambiare, vedere che succede se X nasce femmina o ha altri parenti. Quello che potrà ricevere è il contributo libero, davvero poca cosa, di un posto così piccolo.
Né si può dire o pensare che gli Aretè abbiano una rete di reddito che gli permetta di lavorare a così basso costo e tanto meno che gli torni utile in alcun altro modo, che non ci sono né critici né opinion leader da queste parti. Vogliono semplicemente farlo, perché ne hanno bisogno, perché altrimenti lo farebbero a casa loro ma questa volta senza spettatori. E allora molte domande si affacciano in questo clima che reclama un profondo ripensamento su tutto. Questo è teatro e loro sono senz’altro teatranti. Quando fanno spettacoli si versano i contributi e la siae. Ciò, secondo le regole, equivale a dire che sono professionisti.
Perché allora non hanno chiesto a un teatro di ospitare il loro percorso? E quel contributo libero, così lontano da un minimo sindacale, che tipo di contrattazione e di patto con se stessi e con gli spettatori inaugura? In un teatro una cosa del genere non si può fare, sarebbe antieconomica e un contributo libero o un biglietto di 1 euro sarebbe concorrenza sleale secondo le leggi di mercato, ma allora se è vero che un teatro solo per aprire le porte e accendere la luce spende 500 euro, come può salvarsi e salvare la ricerca? E questi dieci giorni di lavoro senza le regole del lavoro come potranno mai essere contati nei parametri quantitativi di ministeriale e regionale memoria?
Mi sembra che oltre l’ingessatura degli Stabili, la vecchiaia dei direttori artistici, la distanza acuta tra critica e arte, la fatica del costruire quotidianamente una comunità culturale, la platealità di annunci e proclami, ci sia qualcosa d’altro che riguarda le persone-attori, le vite-teatrali, il reddito e le forme di finanziamento, il lavoro che merita una discussione a partire dalle pratiche reali del teatro, diffuso, sotterraneo, cercato.
Bari è molto lontana dai teatri occupati di varie città d’Italia, è lontana persino dal percorso di barbonaggio teatrale proposto da Ippolito Chiarello alcuni anni fa, e nel frattempo già si riuniscono commissioni e convegni per discutere le nuove regole di attribuzione del FUS e del FURS. Mentre il teatro si fa altrove, in strane periferie, e i teatranti e gli spettatori si pongono altre domande e hanno altri bisogni.

3 COMMENTS

  1. come un tempo, la grande Clara! e mi si scuserà se l’accento cade prima su di lei – cosa che apparentemente non dà rilievo alle esperienze raccontate e ai temi indagati nell’articolo – perché è grande chi conserva imperterrito lo sguardo sulla trama dell’esistente, sul pulviscolo sospeso nella luce piena quando vi si espone il tessuto, e perché è raro, in un terra che riesce – forse e qualche volta suo malgrado – a seppellire alcuni dei suoi da vivi, a farli sentire peggiori, sviliti, malati, rotti e fuori corsa. e questa terra con i suoi più grossi abitanti, perché trovo onesto dire che alcuni sono più grossi, ingombranti, pesanti di altri in tutte le declinazioni di questo pensiero, anche politiche e antropologiche, e questa terra con i suoi abitanti, insomma, andrebbe gridata con il fegato in mano mentre un solo indice mostra i fiori che si stanno disegnando sui muri in mancanza di uno spazio per realizzare un degno giardino all’italiana. e d’altro canto, occorre pure dire che impegnandosi a disegnare fiori sui muri si finisce per dimenticare e regredire nell’arte del giardiniere, che era la prima pelle, per la quale ci si sarebbe spesi anima e tutto, e questo in certi produce rimpianto, frustrazione, vecchiaia, la terribile sensazione di aver messo radici nella terra sbagliata.

  2. familiari mi suonano queste parole. due anni e qualche mese orsono, cercai di dire che in quella terra invece che far giardini si stavano installando con insistenza orti, grazie a potenti fertilizzanti venuti da bruxelles che facevano sembrare cavoletti e zucchine più grandi di quanto non dovessero, e così poi si perde il sapore del frutto, che in tutto questo fertilizzare ci si dimenticava che si era partiti con intenzioni diverse e io ero venuto cercando di piantare un fragile bonsai, ma la cosa non piacque, o forse mi ero sbagliato io, e le radici dovettero tornare nell’acqua. Ad ogni modo, fa piacere sentire che qualche bella pianta non ha patito trapianto e continua a fiorire, stagione dopo stagione, anche se in piccoli vasi di nuovi balconi, comunque visibili agli occhi di chi sa vedere.

  3. Sono anni che cammino su strade parallele. Lo faccio non solo perché credo che tutto il sistema teatrale e dell’arte non abbia “visioni”, ma perché credo che ogni epoca debba essere indagata e capita e quindi affrontata con nuovi mezzi e nuove modalità, non perdendo mai di vista il centro: l’edificio teatro. Lo faccio perché non credo che le soluzioni debbano essere lasciare solo nelle mani delle istituzioni. Lo faccio perché sono convinto che manchi un anello fondamentale e fondante dell’arte: il pensiero sulla gente che diventa pubblico attivo di un processo e quindi finanziatore morale e materiale del mio lavoro. In questi anni con la mia casa aperta dal 2006 diventata cinema e teatro, le residenze nei paesi sperduti, il BARBONAGGIO che è diventato movimento artistico concreto, ho costruito e continuo a costruire una garanzia e un motivo per il mio lavoro: un pubblico fedele che segue il mio percorso e, letteralmente, mi aiuta e finanzia la mia/sua ricerca in ambito artistico. Le case, i distributori, i supermercati, i pub, le librerie sono luoghi da frequentare come trincee per arrivare alle prime linee. Sono luoghi dove esercitare il nostro mestiere corpo a corpo per vincere una guerra e entrare tutti insieme nella città conquistata. Sono luoghi dove allenare la gente a un linguaggio, dove portare altra gente a conoscere una pratica. Il teatro però si deve fare a teatro ed è per questo che si deve sempre di più farlo anche fuori dal teatro. Lo scarto è sapere che si esce dal teatro per riportare la gente a “casa”.

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