BRUNA MONACO | A Roma quest’anno si è festeggiato il cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Istituto giapponese di cultura. Attraverso mostre, concerti e conferenze la cultura nipponica è stata al centro dell’agenda culturale della capitale. E per congedarsi da quest’anno di festa, il Teatro Argentina ha ospitato al il fotografo Hiroshi Sugimoto e la sua suggestiva ultima creazione Doppio suicidio d’amore a Sonezachi, che nulla ha a che vedere con la fotografia.
Ricordate il geniale prologo di Dolls, il film con cui nel 2002 Kitano partecipò al Festival di Venezia? Quello era bunraku, patrimonio culturale immateriale dell’umanità dal 2003. Una delle più prestigiose forme teatrali giapponesi accanto al Noh e al Kabuki. Un’arte fragile e antica che ha vissuto periodi di crisi e di splendore, i cui protagonisti sono marionette dalle dimensioni ragguardevoli. I manipolatori in scena sono tanti, tre per marionetta, vestiti di nero dal cappuccio alle scarpe. Defilati rispetto al palco, due musicisti suonano lo shamisen, uno strumento della famiglia dei liuti, a tre corde, dalla musicalità metallica. Accanto a loro c’è il narratore che racconta la storia, descrive l’ambientazione, pronuncia le parole dei personaggi.
Doppio suicidio d’amore a Sonezachi è appunto uno spettacolo di bunraku. Il testo, composto nel ‘700 da uno dei più grandi drammaturghi giapponesi, Chimatsu Monzaemon segna l’inizio del rinnovamento del bunraku che viene introdotto al tema dell’amore, fino ad allora appannaggio esclusivo delle altre arti della scena nipponica. Doppio suicidio d’amore a Sonezachi in effetti parla d’amore, e di morte, certamente. Di come due amanti, Toku e Ohatsu, a cui per questioni sociali è negato l’amore in terra, lo possano vedere compiuto attraverso il suicidio, nel paradiso buddista della Terra Pura.
Nel bunraku i volti delle marionette, scolpiti in legno di cipresso, hanno i tratti marcati. Ma quando si muovono quelle maschere che paiono monolitiche, riescono ad aprirsi a una gamma di nuance psicologiche inimmaginate. La disarticolazione delle marionette è tale da consentire uno spettro di variazione espressiva molto ampio: così il petto di Ohatsu può vibrare quando è scosso dal pianto o da una disperazione trattenuta. Le dita della sua mano possono aprirsi e protendersi verso quelle di Toku. Le palpebre si chiudono amplificando l’impressione di verosimiglianza e l’emozione degli spettatori. Nei momenti di grazia dello spettacolo, agli apici tragici della narrazione, le marionette sembrano vive, almeno quanto degli attori veri. Come gli attori di Ariane Mnouchkine nel celebre Tambours sur la digue spettacolo “sottoforma di pièce per marionette interpretata da attori”, in cui è raccontata la tragedia di un’inondazione esplorando tutte le tecniche di teatro di figura orientale, fra cui il bunraku. E si fa vivo anche il rapporto con i manipolatori: uno stuolo di servi e cortigiani che serve i propri padroni, queste bambole giganti nei loro costumi ampi e rifiniti. Agevolano il loro incedere e li accompagnano nella bambagia, così paiono i manipolatori a servizio delle loro creature.
Dalla fotografia, arte contemporanea per eccellenza, Hiroshi Sugimoto è passato alla tradizione. Un ritorno all’autenticità e alla sicurezza del passato, una fuga dall’ossessionata ricerca di novità che inseguono i contemporanei e da cui “siamo ormai quasi annoiati” confessa Sugimoto. Eppure non mancano i tratti innovativi in questa sua messa interpretazione di Doppio suicidio d’amore a Sonezachi. Dei contributi video riempiono lo spazio scenico, fanno da scenario all’azione riproducendo ambientazioni stilizzate o riproponendo l’ingrandimento di alcuni dettagli: Ohatsu che abbassa le palpebre e inclina la testa è così ben visibile anche al pubblico dei posti più lontani.
D’altronde pare che la storia del bunraku sia intessuta su un doppio filo che unisce tradizione e innovazione se questo di Chimatsu Monzaemon, testo tradizionale per eccellenza, fu rivoluzionario all’epoca della sua uscita. E poi il bunraku è certamente fra le tecniche di manipolazione delle figure, quella che più è stata osservata e studiata, a cui più i contemporanei hanno attinto per approdare ai “nuovi” linguaggi del teatro di figura.
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