IGOR VAZZAZ | Viviamo in un paese strano. Lo sentiamo ripetere da quando siam nati e, alla fine, ne siamo convinti, perpetrando l’assunto ogniqualvolta ci venga richiesto di proporre qualche sparuta, parzialissima osservazione su quanto ci circonda. Inzuppati sino al midollo nella comunicazione, invasiva, violenta, interstiziale, il dilemma su quale e quanta importanza debba concedersi al mondo come rappresentazione rispetto alle sue strutture è tutt’altro che lezioso, avendo ben coscienza di quanto ciò che viene propalato dai mezzi di comunicazione incida sulle strutture stesse, in un vortice di rimandi che ci pare tra i più complicati problemi della nostra contemporaneità.
Nondimeno, la nostra personale natura novecentesca (senza orgoglio: sinora, abbiamo vissuto più nel secolo, e millennio, scorso che nel presente) si desta dal dormiveglia, quando, è il caso di qualche giorno fa, scorrendo i giornali, ci capita di notare due notizie apparentemente slegate tra loro, eppure unite da un irriducibile, almeno ai nostri occhi, fil rouge. Da un lato, l’appello, ennesimo, di Laura Boldrini circa lo sfruttamento del corpo femminile in ambito pubblicitario, paventando la possibilità d’ipotetiche (a parer nostro demenziali, oltreché poco applicabili) censure sul tema; dall’altro, la notizia delle cinquecento donne in fila, a Genova, per tre, leggasi tre, posti di lavoro in un negozio di abiti per bambini. Cinquecento giovani e meno giovani, italiane e straniere, curriculate e non, convenute col sogno di un lavoro, guadagnare dei soldi, chissà, campare la famiglia, per quelle temerarie che ne abbiano voluta costruire una, sia essa tradizionale, innovativa o quant’altro.
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Premessa: le considerazioni alla base dei discorsi della Boldrini sono intuibili, ci illudiamo di comprenderne il senso, pure una certa necessità, eppure, l’evidenza dell’altro fatto ci pare di tutt’altra entità, al punto da far slittare in secondo piano (non obliterare) la questione posta dalla presidente della Camera. Proviamo a spiegare: la televisione, e la pubblicità in particolare, è uno strumento di registrazione, sciente campionamento del reale, riproposto in forma potenziata ed efficace. Provare a “correggere” un’ingiustizia partendo dal piano mediatico, quello dell’immagine televisiva, ci pare davvero ipotesi ardita, come costruire un edificio partendo dal tetto e non dalle fondamenta. In questo senso, fondamenta sono le condizioni reali, di lavoro, di inserimento sociale, di dignità professionale, non certo la diffusione di modelli magari criticabili, ma che trovano riscontro, ahinoi, in rappresentazioni ben più sedimentate nell’immaginario comune. E, in questo senso, ci pare di riscontrare la vera impasse della sinistra contemporanea, che, da un lato, pensa di potersi permettere la ricusa di Marx, orpello inservibile, dall’altra, ignorandolo, finisce per smarrire completamente qualsiasi legame solido con i suoi interlocutori principali, relegandosi in una terra di nessuno autoreferenziale e velleitaria.
La questione dello sfruttamento del corpo femminile è, purtroppo, un problema secolare nella nostra cultura, checché ne possano dire gli anti-islamici dell’ultim’ora (o dell’ultimo decennio). La stessa storia del teatro moderno nasce grazie allo sfruttamento muliebre: tra le principali “armi” dei comici dell’arte, nel Cinquecento, i primi professionisti dello spettacolo, dove arte sta, appunto, per mestiere, lavoro, c’era l’impiego di attrici in scena, opzione inusitata e scandalosa per l’epoca, giacché il palcoscenico era spazio da sempre riservato ai maschi. Non è che gli Andreini, e le varie famiglie di teatranti che hanno attraversato i secoli, fossero femministi egalitari: macché. Semplicemente, pure all’epoca, la presenza di una donna tirava di più, specie se bella. Alla fin fine, un evento di questo genere, sorto da una necessità non particolarmente nobile (ma, per chi scrive, la sussistenza ha sempre quarti di nobiltà), ha comportato un risultato positivo.
Tornando al giorno d’oggi, pensare d’impugnare la bacchetta e pretendere di imparare alla pubblicità come rappresentare il mondo, ci sembra davvero voler drizzar le zampe ai cani, con la realtà di una sinistra che, per paradosso, da parte avanzata e progressiva della società, si ritrova, e non solo su questo campo, a svolgere battaglie di retroguardia, dai contorni conservativi. Convinti come siamo che l’etica sia un momento dell’estetica, pensiamo che il machismo, più o meno implicito, proposto dai mass media sia da combattere sul campo culturale, con l’umorismo, la parodia, l’assurdo, la rappresentazione stessa, e non con altre leggi, altre righe di codice, altri comandamenti da disattendere. Certo, per farlo si dovrebbe avere la forza di sobbarcarsi uno sforzo culturale, avere una sparuta visione da proporre, cosa che questa sinistra, benché non abbia (ancora) abiurato a Gramsci, sembra non saper sciorinare. Del resto, se così fosse, sarebbe anche ben chiara la gravità della situazione rappresentata dal caso genovese: se le donne potessero lavorare (e usufruire di leggi eque al riguardo), la pubblicità si adeguerebbe di conseguenza.
A proposito, restando in tema: della Barilla tacciamo. La pasta ci piace buona.
Bravo collega di PAC! Barilla compresa, il problema è di quelli che la compravano prima, giacché buona non è mai stata…