BRUNA MONACO | Il riscaldamento terrestre e le sue conseguenze non tanto sul pianeta quanto sulle persone. Le conseguenze a breve, brevissimo termine: popoli costretti ad abbandonare i propri villaggi e migrare in cerca di una terra migliore. Villaggi interi coercitivamente allontanati dalla campagna, dopo estenuanti e inutili manifestazioni. I rifugiati ambientali sono una nuova categoria di esuli, in pericoloso e rapido aumento, poco conosciuta dall’opinione pubblica, poco seguita dai mass media.
Parla di loro, anche di loro, l’ultimo spettacolo di Rachid Ouramdane portato al Teatro Eliseo dal Romaeuropa Festival. Sempre attento a tematiche sociali, il coreografo francese di origine algerina questa volta ha scelto un tema trasversale che va dall’uomo alla natura per ricadere tragicamente sull’uomo. In Sfumato l’uomo-carnefice, causa dei disastri, è una presenza immateriale. Ma vediamo l’uomo-vittima, in una duplice forma, che sembra un ossimoro: dal vivo i danzatori lo rappresentano, in video invece lo incarnano i testimoni reali. Visi dai tratti orientali, cinesi e vietnamiti, appaiono uno dopo l’altro su uno schermo che copre tutto il fondo-scena. I primi piani sono strettissimi e fissi, la camera sembra voler entrare nella pelle dell’intervistato per partecipare (e far partecipare il pubblico) della sua sofferenza. Una voce off racconta in prima persona le disavventure di questi personaggi. Sui rappresentati dell’uomo-vittima in scena, invece, imperversa la natura nei suoi quattro elementi, natura che qui è carnefice dopo essere stata anch’essa vittima dell’uomo.
Lo spettacolo si apre col fuoco, il riscaldamento terrestre: a terra due corpi accasciati emanano fumo. Loro non si muovono, sembrano morti, ma il fumo aumenta e riempie la scena, arriva al pubblico. Arriva l’aria a spazzare via il fumo, ma non in modo pacifico: è un uragano. Lora Juodkaite rotea su se stessa per più di sei minuti, ininterrottamente. Nulla che somigli a uno stato di trans: Lora è lucida mentre ruota, modifica l’effetto della rotazione muovendo le braccia, la schiena, la testa. Un microfono sull’avambraccio registra il suono dell’aria che si sposta. Poi arrivano le piogge delle foreste pluviali. L’acqua scroscia sul palcoscenico, bagna i danzatori che si dibattono al suolo come animali in cattività. E per alleggerire la scena un riferimento pop: mentre sul fondo l’acqua abbatte due danzatori, si affaccia alla ribalta un terzo interprete che in scarpe da tip tap ritma e intona un inatteso Singin’ in the rain.
Sfumato di Rachid Ouramdane è un spettacolo dalla grande efficacia visiva. Ma lo stile del regista è ben più che riconoscibile: i moduli coreografici che propone in questo spettacolo sono molto simili a quelli visti l’anno scorso in Ordinary Witnesses: danza roteante, break dance, il rallenty che periodicamente si insinua e rompe il movimento naturale delle azioni. A differenza Ordinary Witnesses, però, in Sfumato c’è poca coesione, forse poco coraggio. E’ uno spettacolo che sembra soprattutto ricercare l’effetto e senza dubbio lo trova. Ma una volta raggiunto, l’effetto svanisce, non c’è nulla che penetri e si sedimenti nello spettatore.
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