MARAT | Perché la sensazione è sempre un po’ quella. Che non si è mai nel tempo giusto. Si sta lì fermi riscaldati di luce riflessa, mentre tutti ci ricordano che il teatro vero è stato prima, la musica non sappiamo più nemmeno cosa sia, del cinema non ne parliamo e le avanguardie dove si trovano? Che io con lui ci prendevo l’aperitivo, si vedeva dal semaforo quanto stava storto. Ma quando si metteva davanti alla tela, lo capivi eccome il motivo per cui era a questo mondo. E adesso? Adesso è tutto marketing Marat, figli di papà radical-chic del cazzo che gli chiedi di Modigliani e manco sanno chi sia. Figurarsi inventarsi una burla. Questi dei teatri poi, a fare da quarant’anni la stessa cosa perché una sera del 1975 quella cosa ha funzionato. Ora pure le performance, pensano che sia la rivoluzione. E invece hanno solo spolverato l’argenteria andata fuori moda, lucidata che pare nuova. Marat te lo dico io, vale un cazzo. Manco c’avete una guerra seria contro cui far casino.
E io bevo. E penso che in tutta onestà, non ne ho più mezza di ascoltare di questi discorsi. Che lo so che Brancusi si è fatto mezza Europa a piedi per andare a bottega da Rodin. Che quell’altro ha pulito scarpe agli angoli delle strade e che tizio suonava nelle feste di compleanno. E lo so che voi credete che a un certo punto tutto questo sia finito. Ed è arrivata una massa di gente sempre un pochettino troppo in là per aver vissuto veramente le cose. E sempre un pochettino troppo molle per farne di nuove. Sarà. Ma io invece tutt’intorno vedo gente che ha una passione che non si tiene. Una passione talmente grande, da farli divenir fragili come le caviglie di Van Basten. Gente sottopagata, sfruttata, che nun c’ha l’acqua corrente (ma chi me sente). Messa in condizione di non nuocere, non scegliere. Il teatro ne è pieno. Ma non solo. Eppure mentre riascolto l’album di Keyne West, penso che chi mi parla non ha capito. E il fatto che per generazioni abbiate chiuso con le Big Babol tutte le serrature delle nostre porte, non significa che non stiamo uscendo. A fatica, certo. Ma stiamo uscendo. Condividendo uno zeitgeist silenzioso e violento, dai contorni indefiniti. Ma dal messaggio chiarissimo. Che può essere sintetizzato nella reazione di Carletto Mazzone al termine del derby Brescia-Atalanta, pareggiato dai suoi all’ultimo minuto. “Figli de ‘na mignotta!” urla mentre s’alza dalla panchina e corre verso la curva avversaria. Divincolandosi dal buon senso. Lanciandosi nell’(in)atteso.