caroline

VINCENZO SARDELLI | E se a raccontare Amleto fosse Ofelia? Quante riletture del capolavoro shakespeariano. Parrebbe che il drammaturgo inglese si sia divertito a fare di quest’opera una moderna banconota dalle cento filigrane, un Lego che si presta a essere scomposto e ricomposto in cento modi diversi. Tanti spunti e temi. Ciascuno un’occasione per interagire con la creatività di chi vi si accosta.

Così non sorprende che la proteiforme Caroline Pagani, attrice, regista e drammaturga, abbia riscritto la storia dal punto di vista di Ofelia. Sorprende invece il risultato di questo Hamletelia, di scena allo Spazio Tertulliano di Milano. Uno spettacolo pluripremiato: vincitore dell’Internationales Regie Festival Lipsia 2009, Premio Fersen alla Drammaturgia 2013, Miglior spettacolo, miglior regia, miglior attrice al Festival Corte della Formica di Napoli 2010, Miglior attrice al Roma Fringe Festival 2013.

Una riscrittura misurata, rapida, piena d’intuizioni comiche e ammorbidita da un uso dosato, mai invadente, della rima e di altri espedienti retorici. Un intreccio di registri, dal tragico-attoriale-tradizionale-narcisistico al comico e grottesco, dal cabaret al musical. Un rimbalzo di lingue (italiano, inglese, tedesco, francese, persino torinese) che evidenzia ironicamente, forse con qualche compiacimento, la dimensione internazionale dell’opera shakespeariana e la poliglossia dell’attrice. Espedienti teatrali che vanno dall’amnesia alla schizofrenia. Persino un excursus teorico sulla recitazione, sul bisogno che il teatro sia specchio della natura, mai deriva imparruccata e pomposa. Quest’Ofelia visionaria aspirante «zoccola» sbeffeggia le pose classiche di attori vanesi. Cancella le tracce della tragedia. Ridefinisce una storia di fantasmi, amori, morti violente.

Caroline Pagani raccoglie i feticci di personaggi, ne reinterpreta desideri, pensieri e sogni. L’ambientazione è da romanzo gotico, un cimitero avvolto da terra scura che accoglie e custodisce enigmi. Si parte con un plenilunio, atmosfere fumose azzurro-cupo, stile preraffaellita. Un corvo nero e una pantegana dialogano con questa donna istrionica che sul palco canta, marcia, armeggia, spazia dal madrigale tardo rinascimentale ad arie verdiane, cita Manzoni e Testori, emula Michael Jackson nelle macabre movenze rock di Thriller. Ne viene fuori una creatura metamorfica, labirintica, poliedrica, che rinfaccia all’Autore d’averne fatto una crocerossina sfigata ascendente suora, banalmente suicida. Scialba, inetta, frigida. Troppo in bilico tra Beatrice ed Ermengarda. Troppo passiva di fronte alle scelte degli uomini della sua vita.

Quest’Ofelia è anzitutto donna: inno alla bellezza e alla carnalità, femminilità consapevole a tutto tondo. Il modello stilnovista cede a emancipati immaginari di lussuria. Trasparenze di tulle svelano in questo redivivo personaggio amletico insospettati profili da Maya desnuda e odalisca felliniana.

Eros prevale su Thanatos. Ofelia si confronta con gli altri archetipi femminili di Shakespeare. Invidia a Lady Macbeth l’ardita dignità regale, a Geltrude la lascivia incestuosa, a Cleopatra il coraggio di un suicidio esemplare, a Giulietta le gioie di un amore effimero ma pur goduto. Persino la morte di Desdemona, che ha sentito sul collo la morsa omicida e il respiro del Moro, ha più decoro della sua.

Tanti punti di vista. Tanti ammiccamenti e riviviscenze. Ironia ed enigma, follia e ingenuità. Un lavoro eccentrico, elegante, messo in scena con fantasia e intelligenza.

L’Ofelia dinamica di Caroline Pagani…

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…e quella diafana di Francesco Guccini, cantata da Augusto Daolio
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E Peter Hammill?
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