robertoVINCENZO SARDELLI | Aveva ragione Renato Zero. Che in Triangolo sentenziava: «la geometria non è un reato». E allora ci provo anch’io a fare «una cosa a tre». Ad articolare un simposio teatrale con due «firme» di questo magazine: Elena Scolari e Marat. Tutti e due cresciuti a pane e teatro. Format nuovo, evento straordinario, di cui siamo stati testimoni: il ritorno a teatro, e sul palco, di quel funambolo della drammaturgia che è Bob Wilson. Serata unica, domenica 20 ottobre 2013. L’Ultimo nastro di Krapp per la riapertura del Teatro dell’Arte. E allora riparto da Zero. Anzi. Ricomincio da tre!

VINCENZO: Corti e taglienti. Su Wilson a Milano. Uno scambio a tre, Zazie e Marat. Che ne pensate? Non dico dell’idea (ci siete dentro fino al collo!). Ma di questo Wilson d’antan, innovatore e tradizionalista. Del suo silenzio smorfioso eppure terribilmente teatrale per i primi venti minuti, dopo che uno squarcio tuonante ci ha svegliati dal torpore e ha dato il via allo spettacolo. Di questo beckettiano Ultimo nastro che sembrava Aspettando Godot, se non altro perché è iniziato con un’ora di ritardo. Di questa scenografia e di queste atmosfere così contemporanee eppure grigie, in continuità con quella Milano del ‘76 al punto che sembrava dovesse sbucare da un momento all’altro una Giulietta all’inseguimento di una macchina di rapinatori. Quell’anno lo stesso Wilson, in maniera catacombale, fece un solitario spettacolo d’avanguardia in via Ulisse Dini. Pochi soldi e tante idee allora. Adesso mezzo milione di euro dalle istituzioni per il nuovo CRT, qualche luccichio, un bel parterre. Ma forse qualche idea in meno? Sta di fatto che domenica Milano era proprio livida come in quegli Anni di Piombo.

MARAT: Con lui in ritardo come neanche Mick Jagger. Un’ora in più per le babysitter. Ma con la pioggia più bella mai vista in scena. Che pareva una graphic-novel. Con i primi venti minuti fortissimi. Nonostante la qualità dell’audio. Nonostante le banane. Ma sono venti minuti.

VINCENZO: Già. Venti minuti di silenzi, movenze caracollanti e gorgheggi. Con quegli urli spettrali terribilmente evocativi. Così veri. Come quelli dei miei alunni di quarta Itis quando sprigionano il loro disagio. Con la differenza che, diversamente da Wilson, loro dagli zaini non tirano fuori banane da sbucciare, mangiare, e lanciare sul pavimento, ma Smartphone e sigarette da confezionare sui banchi.

ELENA: Ma c’è un incidente: un proiettore bruciato costringe a spostare l’asse di proiezione dei sottotitoli in italiano su una parete laterale. Questo imprevisto ci porta a fare una riflessione che rende unica la serata deluxe al Teatro dell’Arte di Milano. E che le regala un soffio di calore teatrale.

MARAT: Sarà, ma mi deve un torcicollo. E non lo perdono.

ELENA: Torcicollo a parte, prima di scoprirne la ragione banalmente tecnica, l’accidentale cambio di prospettiva ci ha fatto pensare che lo spostamento avesse un senso concettuale. Sì perché tutte le parole che ascoltiamo sono le parole registrate negli anni da Krapp, gli avvenimenti, minuti e no, della sua vita, messi su infiniti nastri, classificati per scatole e bobine, riproducibili a piacere. O dispiacere. Ascoltiamo il passato, e il passato non ha uno spazio, non lo stesso del presente. E così, voltandoci, diamo sussistenza reale allo scarto tra ora e allora.

MARAT: Però mi viene da pensare che ci sia più scena che Krapp. Più forma che sostanza. Più per lui che per noi. E mi capita ogni tanto di pensarlo. Con Bob. E le faccette buffe, l’orango e i mimi hanno pure iniziato a dare un po’ noia. Diciamolo. Che poi una chiusa come Perhaps my best years are gone. When there was a chance of happiness. But I wouldn’t want them back. Not with the fire in me now. No, I wouldn’t want them back, farebbe venire giù il teatro anche ci fossi io in scena. E ho detto tutto.

VINCENZO: Che poi non capisco, Marat, con il tuo inglese fluente, che motivo avessi di farti venire il torcicollo leggendo i sottotitoli proiettati all’estrema sinistra dello spettatore.

MARAT: A volte fingo di sapere quello che non so. E viceversa. Ma soprattutto c’è un grande bisogno di conferme.

VINCENZO: Io invece ho pensato che l’espediente fosse un atto di deferenza al mitico Bob. Che non ha bisogno di didascalie. Neppure per un pubblico pigro come quello italiano che non ama sentir recitare direttamente in inglese. Però a me il torcicollo non è venuto perché ero all’ultima fila. In platea, ma sempre all’ultima fila.

ELENA: Certo questo spettacolo non andrà nella mia top ten. Guai però a chi dice che non ha toccato il cuore, la pancia. Che queste critiche anatomiche noi PACchiani non le facciamo, vero? Il punto centrale è che Bob non ha incantato la platea da ci piacerebbe essere nella New York di Andy Warhol e ci comportiamo come se Milano lo fosse. Problemi di cervicale a parte.

MARAT: Alla fine mi gira un po’ la testa. Come quando saluto troppa gente nel foyer, ormai ho una certa. Ma è Bob. Bob Wilson, mica quello cattivissimo di Laura Palmer. Anche lui ha una certa, mica è più il giovane texano sperduto nella periferia milanese. Ma mi piace comunque uscire a causa sua la domenica pomeriggio, con fuori che piove un mondo freddo. E lasciare per un paio d’ore quell’accappatoio azzurro. Che neanche Lebowski vale sempre la pena. Diciamolo.

VINCENZO: Amici, romani, colleghi d’ammucchiata… Onorato di essermi ubriacato con voi e chissà, ci saranno altre occasioni orgiastico-artistiche. Sperando che l’operazione-Frankenstein non sia stata sgradita al lettore.

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