tiresia

VINCENZO SARDELLI | Che cosa vedi, Gianfranco Berardi? Che cosa vedi sul palcoscenico mentre in mutande intoni un allucinante rap su un cubo, o quando, sferzante, cinico, scendi in platea e arringhi gli spettatori? E li inviti a deriderti, a intonare in coro «cieco di merda»?

Sei irriverente. Sei impudico. Sfidi il primo che ti capita. E magari la poltrona davanti a te è vuota. Affronti il rischio di parlare al vuoto. Male che vada ne esce una gag più esilarante.

Li vedi i nostri occhi spaesati? Che magari qualcuno del pubblico neppure ti conosce. Viene a teatro alla cieca. Anche lui. E se davvero non ti guarda negli occhi neppure si accorge che non ci vedi, tanto ti muovi bene, reciti bene. E danzi, salti, volteggi. Con quel tuo fisico sottile che si rimodella ogni giorno nell’arte.

Ci sei o ci fai? C’è più sentimento o risentimento quando ci rinfacci i nostri sciocchi eufemismi, “non vedente”, “disabile”, “diversamente abile”? C’è discrimine tra vita e arte? Che cos’è la finzione?

Metti subito le cose in chiaro. Con una ramazza spazzi via il pietismo, ogni residuo d’afflizione. È un rito liberatorio. Ci disorienti. Ci sbatti in faccia la nostra ipocrisia, il buonismo patetico. Ci insegni che si vede attraverso l’anima, piccolo principe del teatro. E puoi imprecare contro Dio. E maledirlo pure. Dio che ti ha dato una vista più aguzza. Quella che mostri in questo spettacolo con Gabriella Casolari, e siete una bella coppia.

E può darsi che In fondo gli occhi, che abbiamo visto al Cooperativa, non sia un capolavoro memorabile. Che la regia sobria di quell’altro zingaro del teatro che è César Brie serva soprattutto a contenere la tua esuberanza, la tua vitalità. Che la scena minimalista serva a non distogliere l’attenzione da voi. Tu che prendi il nome di un Tiresia in maglia azzurra col numero dieci. Quello dei fuoriclasse. Anche il nome è quello di un fuoriclasse, un asso della cecità, un veggente omerico. I Greci sapevano che i ciechi ci vedono meglio, da fare tutt’uno di passato, presente e futuro. E anche Gino Paoli quando intona Il cielo in una stanza gli occhi li deve chiudere, sennò la poesia che c’ha dentro la perde di vista. Qua Gabriella è la barista Italia, donna delusa abbandonata dal suo uomo, e tu, Tiresia, sei il suo socio e amante. Raccontate la vostra storia, i sogni mancati, debolezze e speranze in un bar che è metafora di un paese dove non è rimasto più niente. La tua cecità è filtro per analizzare l’oggi; per scudisciare un paese rabbioso e smarrito, che brancola verso una via d’uscita improbabile. Lasciano il segno anche dentro di noi le staffilate di Gabriella che percuote la tua schiena con quell’asciugamani, e ci mette dentro la sua energia femminile. L’energia del vostro sentimento, anche senza i segni della nostra quotidianità: salutare la persona amata da lontano, finché non diventa un puntino; riconoscerne gli occhi, tra mille altri, nella folla.

Uno spettacolo spiazzante all’inizio, crudo, un pugno in un occhio. Poetico e ironico nel suo dipanarsi, con qualche vena di realismo magico che si tiene alla larga da derive melense. Pochi elementi scenici, niente effetti speciali, tanto movimento, mai a vuoto.

Su quel palcoscenico scudisciate noi, la nostra malattia sociale. La nostra retorica. La nostra a rinuncia a sogni e prospettive. La nostra superficialità quando cediamo al vittimismo e ci rassegniamo alla crisi, incapaci di metterci in gioco. E ci insegnate a guardare con gli occhi dell’anima, di là del vociare confuso della folla, del frastuono di chi apre la bocca senza emettere suoni, e ascolta senza udire. Ci lasciate la vostra vista dolcemente rabbrividente, che vìola le pareti della notte e scalfisce i muri della nostra stupidità.

Trailer dello spettacolo

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Il podcast curato dal nostro Andrea Ciommiento
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