BRUNA MONACO | Che dire di uno spettacolo che dal 2005 a oggi non ha interrotto la tournée e ha ricevuto critiche d’encomio e ovazioni? Che dire di un regista che a quarantacinque anni ha firmato più di trenta regie, tutte pièces apprezzatissime, sei delle quali ancora vanno di teatro in teatro a raccogliere consensi? Il successo dell’Hedda Gabler vista al Teatro Argentina all’interno del Romaeuropa Festival è di per sé un commento eloquente a questo spettacolo che Thomas Ostermeier ha messo su in modo impeccabile. Come spesso accade agli spettacoli destinati a lasciare il segno, anche Hedda Gabler parte in sordina, a dispetto dell’imponente e glaciale scenografia. Su una piattaforma girevole circolare un’ampia vetrata dalle lastre scorrevoli divide due ambienti: il soggiorno col suo design moderno, una veranda. Il soffitto di specchi ci fa tenere d’occhio ciò che accade dentro e fuori dalla scena.
Sulle prime, il pubblico vive lo stesso disagio dei personaggi che si muovono nella nuova casa, algida, senza riuscire a riempirla; e lo proietta sulla scenografia inglobante che prende tanto spazio, troppo, nella loro attenzione. Ma presto l’interesse degli spettatori sarà tutto per l’azione, inizia a spiegarsi la vicenda sorretta dalla bravura degli attori. La regia è pulita, lucida. Ostermeier ha saputo leggere con perspicacia il dramma scritto da Ibsen oltre un secolo fa, traducendo in gesti, sguardi e respiri le sfumature e i non-detto del testo. La recitazione naturalistica è ornata accenti parodici che per contrasto rendono ancora più credibili i dialoghi e le situazioni.
Per l’operazione di rilettura del testo, Ostermeier si è lasciato aiutare da un drammaturgo di professione: Marius von Mayenburg suo storico collaboratore. Non si può parlare di adattamento in senso stretto, piuttosto di “aggiornamento”: il testo di Ibsen è riportato quasi integralmente dagli attori. Ma trattandosi di una Hedda contemporanea, von Mayenburg lo ha emendato degli elementi che lo legavano al contesto storico-culturale di fine ‘800. Mancano i riferimenti al differente status sociale degli sposi, mancano le cameriere, il pianoforte. Il passato di Hedda e le sue relazioni sono affrontati come un dato non problematico, senza particolari spiegazioni.
La trama è nota: l’unica cosa che riesca bene alla bellissima figlia del generale Gabler, Hedda, è annoiarsi a morte. Così, si stanca prestissimo del novello sposo, il promettente studioso Jörgen Tesman. La ricomparsa dello scrittore Eylert Lövborg, un suo amore giovanile, aumenta la sua irrequietudine, a cui si aggiunge l’invidia: Eylert da scapestrato che era, è diventato un uomo savio grazie a Thea, ex compagna di collegio di Hedda. Ma Eylert perde il manoscritto di un’opera geniale scritta proprio con l’aiuto di Thea. E purtroppo lo trova Hedda che per noia o per vendetta, lo distrugge. A Eylert, disperato per la perdita non dice nulla, anzi gli offre la sua pistola per compiere una “bella azione”, per regolare il “conto con se stesso”. Eylert però non si suicida, un colpo parte accidentalmente in casa di una prostituta e lo uccide. L’amico di famiglia e corteggiatore di Hedda, Brack, riconosce la pistola della donna e la ricatta. Forse per non subire il ricatto di Brack, forse definitivamente vinta dalla noia, Hedda si spara.
Tutto ciò è fedelmente rispettato da von Mayenburg e Ostermeier. Quello sul testo è stato un lavoro di finissima limatura che ha ben atteso l’obiettivo: fare un testo verosimile oggi quanto nel 1890.
C’è una sola vera deroga al rispetto del testo, nel finale. E con questa Ostermeier getta una luce diversa, del tutto autoriale, sul percorso scenico del personaggio di Hedda: dopo il suo colpo di pistola, nessuno “si precipita nel salottino” a vedere cosa le sia accaduto, come recita invece la didascalia di Ibsen. Tesman, Thea e Barack restano indifferenti. Intenti nelle loro attività recitano con tono disincantato, con una smorfia di sarcasmo, le battute che Ibsen aveva previsto fossero dette “gridando” da uno, “semisvenuto” dall’altro. La donna che, nel bene e nel male, era stata il polo d’attrazione della scena fin dall’inizio, nell’ansia di esercitare il proprio potere su qualcuno, ha piano piano svelato il proprio carattere, perdendo così l’ambiguità su cui si fondava la sua seduzione. In assenza di un contesto sociale che la schiaccia in quanto donna, e che quindi, in qualche modo la protegge, fungendo da alibi ai suoi comportamenti, l’Hedda contemporanea si mostra alla fine, solo vacua, e priva di interesse agli occhi dei suoi coprotagonisti, mossi tutti, invece, da una qualche passione.
Se qualcuno ha creduto di vedere nel gesto folle di Hedda (bruciare il manoscritto prima, indurre Eylert al suicidio poi) i prodromi dell’“atto gratuito” che vent’anni dopo André Gide avrebbe teorizzato e fatto compiere a Lafcadio ne I sotterranei del Vaticano, beh, quella è forse la Hedda di Ibsen, sicuramente non quella di von Mayenburg e Ostermeier.
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