BRUNA MONACO | L’ultimo capitolo della trilogia di Romeo Castellucci ispirata a Il velo nero del pastore, novella di Nathaniel Hawthorne, è finalmente arrivato in Italia a più d’un anno dal debutto francese al Festival d’Avignon. The four season restaurant inizia nel buio totale. I primi protagonisti sono suoni appena sopportabili, illustrati da didascalie scientifiche: sentiremmo press’a poco quei rumori a trovarci a vagare nello spazio in prossimità di un buco nero, se il nostro orecchio potesse percepire quelle frequenze.
Si alza il telo nero, ennesima rappresentazione del velo del pastore di Hawthorne: simbolo della fuga dall’immagine, filo conduttore della trilogia. Siamo all’interno di una palestra anonima: una spalliera svedese, palle mediche, cassapanche porta attrezzi. Una dopo l’altra, entrano dieci donne, indossano abiti casalinghi da paesane d’altri tempi uguali per tutte, grembiuli e sabot. Una dopo l’altra, respirano forte, si cavano con una mano la lingua di bocca, una forbice nell’altra mano: fra gemiti e sangue lasciano cadere ognuna un brandello di carne. Un cane viene a ripulire il palcoscenico.
La gestualità delle attrici è stilizzata, scandita e lenta fino al parossismo. Come pure la declamazione, a tratti parodica, della tragedia poetica scritta da Hölderlin sul finire del ‘700 e rimasta incompiuta. Si tratta de La morte di Empedocle, in cui si narra dell’infelice destino del filosofo prima amato da uomini e dei, poi d’improvviso ripudiato da tutti. Scambiandosi le corone d’alloro, le interpreti si passano il ruolo di Empedocle. Poi smettono di declamare, e la loro voce arriva dagli altoparlanti.
Quando crediamo che lo spettacolo sia finito, quando le attrici sono uscite una alla volta dal palco con la stessa inesorabile lentezza con cui erano entrate, The four Seasons Restaurant cambia improvvisamente registro. Tolte le attrici, Castellucci diletta lo spettatore con le creazioni scenotecniche che tanto bene gli riescono, anche se sono creazioni già viste, perlopiù. Quindi belle, ma poco incisive.
In The four Seasons Restaurant, come sempre in Castellucci, gli ingredienti utilizzati sono compositi. E come sempre sta allo spettatore rintracciare il senso districandosi fra i linguaggi, i riferimenti e le citazioni esplicite. Ma questa ultima creazione sembra meno riuscita del solito. Sono meno organiche le relazioni fra le parti, a volte un po’ pretestuose; per la prima volta i segni appaiono vuoti, al più calligrafici. Nell’ultima mezz’ora, poi, riprende con rielaborazioni minime interi segmenti de Il velo nero del pastore, seconda parte della trilogia, sicuramente più efficace di The four Seasons Restaurant: i detriti che vorticano sospinti da un vento tumultuoso, il corpo di un cavallo morto svelato dal sipario che arretra. Si può parlare di ripresa del filo del discorso e della necessità di ritesserlo nello spettacolo che chiude la trilogia. Eppure, questo filo, più che aprire nuovi orizzonti, sembra un po’ ripiegarsi su se stesso.
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