NUNZIO foto di andrea coclite 1LAURA NOVELLI | Cosa festeggiamo festeggiando i vent’anni di “Nunzio”? Che pensieri ci vengono in mente guardando ancora una volta – e con il trasporto di ogni volta – questo lavoro che nel ’94 rivelò al pubblico la sensibilità teatrale di un grande autore come Spiro Scimone? Come e in cosa sono cambiate – se sono cambiate – le lievi sfumature espressive dell’interpretazione di Francesco Sframeli (Nunzio) e dello stesso Scimone (Pino)? Vorremmo rispondere in modo semplice, consapevoli che la semplicità sta sempre al fondo delle faccende più serie. Vorremmo difendere l’idea che questo testo – vincitore del Premio Idi e messo in scena con la regia di Carlo Cecchi – indica una strada di verità artistica non comune. Un’autenticità di situazione, di lingua, di ritmo, di personaggi, di prova attoriale, di senso, che in due decenni di vita non ha perso un solo grammo della sua forza. Testimonianza ne sia che “Nunzio” viaggia nel repertorio della compagnia Scimone-Sframeli da allora e che, insieme con altri successi nazionale e internazionali come “Bar”, “La festa”, “Pali”, “Giù”, sarà ancora portato in tournée nel 2014. E non è un caso che a riproporlo a Roma sia stata la rassegna “Le vie dei festival”, quest’anno particolarmente attenta alla memoria di un certo teatro italiano: quello dove i corpo-a-corpo tra parola e attore (si vedano, ad esempio, “Servillo legge Napoli”, Gifuni in “Gadda e il teatro”, Lombardi in “Tre Lai” di Testori) non sono vuote esercitazioni letterarie ma sostanza, materia teatrale delle più audaci, delle più concrete, delle più umane.

NUNZIO - Scimone Sframeli - foto di 2

“Nunzio” racconta la storia di un’amicizia, di un disagio esistenziale che si muove tra le ombre di unaprofessione violenta (incarnata da Pino, il killer) e la fragilità quasi fanciullesca di un essere puro (Nunzio, operaio in una fabbrica del nord). Entrambi hanno lasciato la loro terra (la Sicilia, così musicalmente evocata nel dialetto messinese e così viva nei ricordi, nei profumi della cucina); entrambi sono vittime di un destino infelice; entrambi sognano di fuggire, evadere, amare una donna. Entrambi mantengono però una zona di impotenza nei confronti delle esistenze proprie e dell’altro: il primo è ossessionato da un esterno minaccioso e imprevedibile (e qui il riferimento a Pinter suona fin troppo scontato); il secondo è minato da una salute cagionevole, eredità di un lavoro a rischio. I loro incontri si consumano in una cucina spoglia, dove echeggia tutto un mondo di emozioni sottili e mutevoli. E’ la lingua che li tiene incollati alla loro reale essenza. E’ il ripetersi di frasi , battute, domande che li áncora a quel quotidiano. E’ la verità del mondo che si insinua sotto quelle improvvise virate surreali, quei brividi d’ironia, quegli scarti di registro, di umore. Un grande teatro d’attore, dunque, costruito sulla carne. Cresciuto sulla carne. Sulle prove. Sulle repliche. Motivo per cui se oggi Scimone e Sframeli ci appaiono un Pino e un Nunzio forse più compassati, più malinconici, più rassegnati rispetto alla messinscena del debutto (e in parte anche rispetto alla trasposizione cinematografica, “Due amici”, premiata a Venezia nel 2000), lo dobbiamo “semplicemente” – appunto – al fatto che giocoforza la vita cambia, i tempi cambiano, gli animi cambiano. Quello che non cambia è la vocazione umanistica di un teatro che rimanda ai gangli centrali del nostro essere persone. Non ci sono soluzioni perché non possono esserci. Alla fine, resta l’attesa di un altro tempo, di un respiro largo, quasi cecoviano, inevitabilmente sospeso. Ma sappiamo che non potrebbe essere diversamente. E allora: cosa festeggiamo festeggiando i vent’anni di “Nunzio”? Forse solo la “semplicità” complicata di aver saputo raccontare l’uomo con uno sguardo poetico e sghembo. E davvero non ci sembra poco.

La videointervista del nostro Andrea Ciommiento a Spiro Scimone:

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