VINCENZO SARDELLI | Il rapporto tra uomo, potere e immaginazione. Il delirio di chi, dal potere, si lascia corrodere. C’è la forza sublime del male e della violenza nel Caligola di Albert Camus che la compagnia Teatro Zeta dell’Aquila ha portato in scena al Binario 7 di Monza con la regia di Pino Micol. C’è il bisogno d’amore, sublime e angosciante più della violenza.
È un testo che contagia questo Caligola. Vogliamo soffermarci su Camus, sulla sua poetica intrisa di venature filosofiche. È il nostro modo di ricordarlo, a cent’anni dalla nascita.
Caligola, dunque.
Parigi 1941. Tempesta atmosferica e deflagrazione bellica. Lampi, tuoni, pioggia battente, fulmini; granate, spari, rinculi d’arma da fuoco. Sono laceranti le luci e i suoni di contorno alla scena, cui fanno da contrappunto le musiche lievi originali di Massimo Bizzarri, arie sacre d’organo e gorgheggi.
Siamo dentro un teatro. Una compagnia rappresenta la pièce, in una scenografia dal carattere domestico. L’arte è antidoto all’arroganza sanguinaria di Hitler.
Doppio binario, insomma: da una parte la guerra presente, la follia di Hitler, la Francia occupata dalle truppe tedesche; dall’altra una storia del passato rappresentata su un palcoscenico, che del presente diventa metafora e chiave di lettura.
In questo Caligola, Camus scandaglia la figura del tiranno in lotta contro i senatori, l’uomo affranto per la morte della sorella e amante Drusilla. Sono le alte passioni, l’ambiguità di chi si rimette la maschera e torna ad amare, la considerazione di quanto sia effimera la felicità, per il sovrano come per l’uomo comune.
Di fronte all’irrazionalità della vita, Caligola impone il gioco dell’assurdo. Nell’arbitrio sfrenato moltiplica crimini e misfatti, in un orizzonte indefinito tra il bene e il male.
La forza di questo dramma sta nella bellezza del testo, nell’intreccio tra poesia, sogno e azione. Tutto è alla mercé del caso. L’amore stesso è relativo, s’infila nella variabile tempo/morte.
La parola trafigge la ragione. Il senso dell’assurdo affiora continuamente. L’eloquio di Caligola si caratterizza per una serie di domande aperte che definiscono la complessità del personaggio. È quasi un’autolegittimazione: per quest’uomo si prova compassione, non disprezzo.
La morte, potenza divina e rivelatrice, attende Caligola, e prima ancora la sua amante Cesonia, che sprofonda nell’impotenza. Caligola, al termine di un avvincente climax di follia, riscatta con una morte coraggiosa una vita sciagurata.
La regia di Micol esalta la forza di questo dramma: movimenti da animali feriti e brancolanti, pose statuarie, nascondimenti. Ogni movimento ha un’anima. Tutto è rigore, classicità lontana da derive accademiche.
Micol riduce i dettagli descrittivi concentrandosi sui volti e sulle emozioni dei personaggi, in una serrata sequenza di ombre e di luci, senza esibizione. Con atmosfere tra Caravaggio, Reni e Hayez, con illuminazioni da espressionismo cinematografico tedesco, anche noi finiamo in scena, testimoni dei fatti narrati. Questa immediatezza, la volontà di rompere lo schermo che separa l’arte dalla vita, è forse l’aspetto più forte dello spettacolo. Micol rispetta Camus, stringe la scena intorno alle figure e agli oggetti essenziali, si concentra sull’immutabilità delle passioni, rompe le variabili spazio/tempo.
Angoscia e tenerezza, sacrificio e peccato, orrore e bellezza: Caligola colpisce perché parla di noi. Agisce nel presente come i miti classici, le terzine di Dante, i personaggi di Shakespeare.
Buona la prova di tutti gli attori (Massimiliano Cutrera, Ezio Budini, Gabriele Anagni, Nicola Ciccariello, Andrea Palladino, Valerio Giordano). Con Manuele Morgese-Caligola istrionico, capace di esprimere l’attimo, le smorfie subitanee dell’imperatore, ai cui deliri dà voce, corpo e occhi. E una Maria Letizia Gorga-Cesonia le cui pose vanno dall’espressività tranquilla di Cleopatra alla drammaticità della Maddalena, con incursioni canore nella lirica.
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