RF: Ciao Maria Pia, bello andare a teatro assieme. Anche se per uno spettacolo di non-teatro? O un non-spettacolo di teatro? Che mi dici?
MPM: Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, assieme a Monica Piseddu e Valentino Villa, effettivamente dovrebbero rappresentare questo dramma, dare spessore alla serena malinconia con cui queste donne lasciano la vita, far capire al pubblico la dignità con la quale le suicide scelgono di uscire di scena. Però no, non ce la fanno…
RF: O almeno fanno la parte di quelli che non ce la fanno.
MPM: Effettivamente raccontano al pubblico come sia frustrante a volte rappresentare qualcosa, svuotarsi delle proprie problematiche – che poi non sono molto diverse e distanti da quelle dei personaggi da interpretare. No, no hanno pronto proprio niente da portare in scena, pur avendo lavorato molto nelle prove, no, no, no. È questa negatività sistematica la parola che risuona all’inizio: la non possibilità, la non capacità, forse anche la non volontà di fingere, di accettare le convenzioni del teatro per la quale una persona – l’attore – veste i panni di un altro da sé e una comunità – il pubblico – accetta questa finzione, se ne interessa, se ne appassiona.
Ma naturalmente la Deflorian & C, per non volere più fingere, continua a fingere: si avverte, pur nella straordinaria recitazione volutamente dimessa e apparentemente non impostata ma spontanea, che è una recita nella recita, una sorta di metateatro al negativo, un linguaggio comunque teatrale che nega se stesso per affermarsi ancora di più.
RF: Ma questa cosa pare già vista? E’ cosa su cui il teatro si interroga da un secolo?
MPM: Beh effettivamente…È la problematica del rapporto attore/testo, attore/pubblico, attore/personaggi che Pirandello genialmente fissò, quasi novant’anni fa, nei Sei personaggi. Lì i personaggi, fuggiti alla fantasia dell’autore, urlavano la loro voglia di portare sulla scena il dramma di cui erano protagonisti, qui gli attori soffrono troppo nel raccontare il tracollo della Grecia, troppo presi da loro problematiche personali e professionali, in primis il non volersi adeguare ed adattare sempre e comunque. Questa volontà di non accettazione Daria e gli altri vorrebbero innanzi tutto esplicitarla nella propria vita di persone, prima ancora che nella professione di attore e poi nel ruolo da interpretare
RF: Bene e allora come mai questo teatro che Pirandello dava per morto, Beckett dava per morto, Kantor non sentiva proprio in salute, continua a vivere e a porsi per giunta le stesse cicliche domande che non pare risolvere in sè? Secondo me la risposta è che muoiono quelli che sostengono le varie tesi mortifere, mentre il teatro sopravvive loro; e così ogni nuova generazione ha poi bisogno di confrontarsi con questa cosa, che magari agli addetti ai lavori pare arci nota e stracotta. E su questo, infatti, più che su altro, si è scatenata una rissa fra critici, con Cordelli (sul Corriere) che dice che si sbaglia Palazzi (su Il Sole24Ore) a ritenere questa “la più radicale sperimentazione” vista da anni sul rapporto persona-personaggio, mentre Porcheddu se ne è venuto fuori con una trovata genial-paracula di grande effetto, la non-recensione del non-spettacolo, in cui però non mi ha spiegato bene se lo spettacolo gli è piaciuto o no. Insomma, il pubblico ha bisogno di giocare con il teatro-non teatro, gli addetti ai lavori parlano di deja vu, e cercano di capire se lo spettacolo aggiunga o meno qualcosa alle riflessioni già fatte. Quindi forse può essere utile dire quello che abbiamo vissuto noi, come esperienza di fruizione individuale. A te che è parso?
MPM: lo spettacolo, apparentemente lento, quasi uno spaccato su pensieri interiori, ha invece una verve e un ritmo assolutamente serrato; l’umorismo e l’autoironia condiscono molte battute, molti scontri verbali tra gli attori: umorismo però, non comicità da far ridere smodatamente molta parte del pubblico…
RF: cosa che invece succede, come se occorra da parte dello spettatore esternare un’adesione emotiva oltre quello che si vede, una sorta di overshooting reattivo sistemico di certo pubblico, un po’ ultras, un po’ Curly&Strong. E questo non aiuta lo spettacolo stesso poi a vedere i suoi limiti che pure esistono, anche sul recitato, che deve tenersi in un equilibrio assai difficile da standardizzare e cristallizzare, in quella condizione di falsa verosimiglianza, che onestamente solo la Deflorian indossa con vera disinvoltura. Il plot funziona, il pathos, il finale, ma l’operazione concettuale in sé, per qualunque appassionato di questioni teatrali, poggia su questioni già analizzate. Questo, diciamolo senza problemi, è un fatto. C’e’ davvero bisogno di questo ricicciare il tutto, seppur con un’intelligenza e un approccio delicato e minimal? E dopo Reality e questo, nel futuro continuerà l’indagine sulla recitazione al bordo fra finzione, teatro, metateatro, alla quale bisognerebbe però meglio addestrare chi v’è meno avvezzo per formazione? Non è che rischiamo che, siccome la cosa piace, poi la technè diventa elemento di decisione determinante nell’approccio alla messa in scena? E lo dico convinto, come sono dell’assoluta buona fede di una donna limpida come Daria Deflorian, che davvero di divistico e paraculo non ha nulla nel suo vissuto artistico. Sono proprio quesiti che faccio qui come farei con lei/loro a tavola davanti ad un bicchiere, nel privilegio che ritengo di avere di poter parlare di arte con chi la fa.
MPM: Per me Daria Deflorian presenta una riflessione molto attuale sulla difficoltà di sostenere i ruoli, nella vita e sul palcoscenico, e l’inadeguatezza, sempre più diffusa, a reggere situazioni imposte dall’esterno e non sufficientemente interiorizzate e metabolizzate. A me è parso un esercizio di teatro particolarmente interessante, perché stimola alla disamina della finzione e dell’ambiguità che sono da sempre, e forse per sempre, tra le componenti primarie del rito-teatro.
RF: Quindi dobbiamo rassegnarci ciclicamente a riflettere sulla morte del teatro fatta dal teatro stesso nel teatro stesso, l’autofunerale di cui pure lo spettacolo parla? Quindi è vero che è una questione di generazioni, e che se Pirandello fosse stato immortale magari non avremmo visto “Ce ne andiamo…?” Chissà. Poi, forse in quest’epoca di crisi, la cosa riguarda anche il lavoro dell’attore, che sta per svanire su un fondale nero come uno dei protagonisti di questa storia, schiacciato da committenti non paganti, cachet trasparenti, sotterfugi e beghe che già loro, che sono in quattro, iniziano a costicchiare, per dirla col programmatore medio che ormai neanche più l’attore e la sedia vuole: a mala pena la sedia. Di sti tempi, chissà quanti teatri ci saranno l’anno prossimo a cui proporsi per replicare. Per questo, fra risse di critici, teatri che chiudono e spettatori supporter, per farvi la vostra idea vi invitiamo, se capita, ad andarli a vedere i quattro. Verrebbe quasi da dire: Andateci, per non dargli altre preoccupazioni.
… ma andiamoci! e poi invitiamoli a casa nostra, offriamogli una cena (pranzo, scusate, ché cena indica origine piccolo borghese come la parola pranzo per dire di un pasto consumato tra le 12.30 e le 14.00) e un compenso per essere quello che sono veramente, cioè attori, che censurano le recensioni se non gli piacciono abbastanza e millantano conoscenze, letture e amicizie.