tadiVINCENZO SARDELLI | Precarietà, incomunicabilità, solitudine. Impossibilità d’amare, nevrosi, violenza. Con il risvolto di un appagamento fisico effimero, che infierisce ancora di più sulla solitudine. E il rifugio edonistico in alternative tristi: l’alcol, i farmaci, al limite l’onanismo.
La provvisorietà è il leit-motiv di due pièce che vedono all’opera due giovani compagnie del Milanese, Vioi Collectus e Tadà. Due risposte diverse al mal di vivere. Due drammaturgie contrapposte: silenziosa, Vioi Collectus; caciarona, Tadà.

Rip è il titolo inquietante scelto da Vioi Collectus, che abbiamo visto ai Linguaggicreativi di Milano. E hanno un bel dire la regista Chiara Cicognani e gli attori Valentina Rho, Matteo Barbé e Alessia Bedini, che si tratta dell’acronimo di Raian, Isa e Patti, «tre trentenni che condividono un appartamento, un diario, e forse un fallimento». La mente va alla morte, e non sbaglia: Cosa sarà, che fa morire a vent’anni, anche se vivi fino a cento? cantavano Dalla e De Gregori. Qui gli anni sono trenta, ed è peggio di peggio.

Sullo sfondo è proiettata da Marco Monti una Milano alienante, follia di monadi con nulla da dirsi. E da darsi. La città è labirinto, nevrosi spersonalizzante.

Dinamismo metropolitano, musica straniante. Il nastro adesivo sul pavimento tratteggia una cucina di scatoloni, un bagno con tazza, una camera da letto a due piazze. Simbolismo minimalista.

«La vera comunicazione – diceva il filosofo Michele Federico Sciacca – avviene nel silenzio. Le parole creano equivoci». Qui c’è silenzio, niente equivoci. Neppure comunicazione, però. Raian, Isa e Patti formano un triangolo che non si chiude mai. Ogni tanto perde un lato. O tutti e tre, in barba a ogni teorema.

I giorni si ripetono in fotocopia: speranze, disillusioni, rituali (auto) erotici; gelosie, invidie, fughe. Impotenza. E spiragli di luce annusati, rubati tra lenzuola e cuscino.
Si ride per non piangere. Si cerca invano un contatto “qui e adesso”. E gli anni passano.

Rip è il ritratto evocativo di tre solitudini che si guardano allo specchio. Affanno e insoddisfazione. Pathos sfiora Eros. Agape sta alla larga. Il silenzio promette Thanatos. Affoga nell’inquietudine, con atmosfere tra Kieslowski e Dogville.
D’impatto la presenza scenica dei protagonisti. La regia è sobria, essenziale, al netto delle didascalie e ridondanze presenti nella prima versione.

Dal silenzio anoressico agli eccessi glicemici il passo è breve. Con un poco di zucchero, della compagnia Tadà (Chiara Passaniti, Monica Agosti, Antonio Napoletano, Francesco Leon, drammaturgia e regia di Chiara Passaniti, visto al Teatro Studio Frigia Cinque di Milano) è una commedia che racconta l’incontro di quattro fantomatici personaggi nella sala d’attesa di un Pronto Soccorso. Abbiamo un ipocondriaco habitué dell’ospedale; una giovane affetta da sindrome di Peter Pan; un gay che cerca mille alibi per nascondersi. Infine una donna depressa cronica e paranoica, che comprime insospettati rigurgiti ormonali.

Il testo si preoccupa di dosare, pur qualche avvitamento qua e là, leggerezza e meditazione, assurdo e tragico della vita. La regia spazia dal grottesco al comico, con poche vene di lirismo che risaltano nel marasma dei toni sovraccarichi. Buona la recitazione, con una Passaniti-Sbirulino, una Agosti che riesuma tratti del repertorio di Ave Ninchi, mentre il duo Napoletano-Leon se la gioca sui registri del surreale e del realismo magico.

Uno spettacolo che è occasione per il pubblico per riflettere sui tanti disturbi e fantasmi che popolano la nostra quotidianità. Una performance che rivela una qualità embrionale, eppur visibile. Perché, sfumando un minimo la recitazione, contenendo la loro esuberanza, potenziando ulteriormente le incursioni intimistiche che affiorano qua e là, gli attori di Tadà sono capaci di coinvolgere il pubblico in un viaggio senza direzione se non quella dell’artigianato teatrale e dell’equilibrio tra le mille malattie della mente.

Trailer di RIP: http://vimeo.com/58251465

 

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