SCRIVEREEMANUELE TIRELLI | Richard Yates non sarebbe mai diventato uno scrittore senza Francis Scott Fitzgerald. Fu lui stesso a dichiararlo. Herman Melville aveva una profonda ammirazione per Nathaniel Hawthorne e il loro carteggio lo dice chiaramente. Tra Henry Miller e Anais Nin esplose un amore sanguigno e appassionato. La storia della letteratura è piena di vicende di questo tipo. E magari è anche divertente, interessante, o quello che volete, farsi un po’ i fatti degli autori, scoprire cosa facevano e magari ritrovare qualche elemento nei loro romanzi. Pensiamo anche alla stima che legava John Fante e Charles Bukowski, stima e amicizia. Bukowski gli disse addirittura che sapeva scrivere come Faulkner, regalandogli così un grande complimento. Faulkner. Mica accostando lo stile dell’autore italo-americano a quello di un aspirante scrittore qualsiasi, come oggi fa Andrea De Carlo. Soprattutto se poi l’aspirante scrittore qualsiasi risponde “Fante ha toccato l’inferno, ma io mi ci sono seduto sopra”.

La storia della letteratura è fatta anche di invidie, tric trac e imprecazioni. Di certo non deve essere stato facile avere a che fare con molti di loro. Sembra che Salinger fosse uno che tirava gli schiaffi dalle mani. Ma almeno era Salinger. La storia della letteratura è fatta di persone, essere umani, spesso più barcollanti di altri. Ed è per questo che ci sono molte vicende che riguardano anche le abitudini di scrittura. Eliot si occupò de “La terra desolata” in clinica dove era ricoverato per un esaurimento nervoso e si fece macellare il suo poemetto da Ezra Pound, molto più instabile di lui, che poi chiamò “il miglior fabbro”. Truman Capote si concentrava davvero solo quando era sdraiato (anche Joyce) sul letto o sul divano. Lewis Carroll ed Hemingway lavoravano in piedi, e Sartre, Bellow e Tomasi di Lampedusa riuscivano pure al tavolino di un bar. Insomma, ognuno aveva il suo posto, il suo rituale e certe abitudini da difendere con la spada affilata per proteggere e favorire l’ispirazione. De Cataldo, però, Giancarlo De Cataldo (quello di “Romanzo criminale”, per capirci) dice che oggi gli autori devono essere abituati a scrivere ovunque e con qualsiasi contorno. La domanda è “Perché?”.

Oggi i tempi sono cambiati. Si stava meglio quando si stava peggio, felicità a momenti e futuro incerto. Oggi esistono le case editrici che pubblicano a pagamento e si rende molta, molta più attenzione alle vendite che alla qualità.
Eh, ma i tempi sono cambiati.
Pure questo è vero.

Così come è vero che, proprio perché i tempi sono cambiati, Rai 3 s’è inventata Masterpiece, un talent show letterario dedicato ad aspiranti scrittori. Il vincitore si porta a casa un contratto con Bompiani per la pubblicazione del proprio romanzo in centomila succose copie e tanta visibilità. Mica male. Anzi, proprio bene. E poi con Bompiani. L’idea è pure buona e per farla funzionare (oramai da tre settimane) hanno chiamato Andrea De Carlo e Giancarlo De Cataldo per vestire i panni di due dei tre esaminatori-giudici insindacabili-finali. Un’idea nuova. E poi dietro c’è Elisabetta Sgarbi che alla Bompiani fa un ottimo lavoro. Vabbè, uno potrebbe pensare che tanti scrittori messi insieme non è che siano proprio il massimo del divertimento. Spesso capita che già un autore da solo non sopporti affatto nemmeno se stesso, figuriamoci un’accozzaglia di concorrenti sconosciuti. Però l’idea è buona. Ma è zoppa. Dimentichiamoci Yates, Fitzgerald, Capote, Hemingway e, senza sparare nell’Olimpo, dimentichiamoci pure il Pietro Grossi che nel 2006, a ventotto anni, pubblicò “Pugni” con Sellerio. De Carlo e De Cataldo fanno la parte del poliziotto cattivo e di quello buono, scambiandosi più o meno i ruoli. Poi c’è la scrittrice Taiye Selasi, anche lei giudice, a creare equilibrio e un Massimo Coppola (geniale in programmi come Brand: New e Avere Ventanni, nonché direttore della casa editrice Isdn) nelle vesti di un coach un po’ troppo infastidito da tutto.

logo masterpieceForse dopo tre puntate si può tirare almeno una piccola somma di quello che è successo e valutare se la produzione ha aggiustato un po’ il tiro. La risposta comunque è sì, ma le domande sono. Si parla poco di letteratura? Sì. Si parla poco di autori? Sì. A volte la concentrazione sta troppo sul candidato e poco sul suo testo? Sì. I candidati stessi, nella maggior parte dei casi, sono letterariamente imbarazzanti? Sì. Certo, niente Pound, niente Eliot, niente Salvatore Toma o Pietro Grossi. Ed è anche giusto considerare che si tratta di un prodotto televisivo. Però, insomma, a parte farsi quattro risate, sembra un’occasione sprecata, un grande sfottò. Tutto troppo veloce. Di quella velocità che si vede e che denota scarso equilibrio nella costruzione del programma. Eppure guardando l’ultima puntata aleggia la sensazione che qualcosa sia cambiato (in meglio) rispetto alle due settimane precedenti. Forse Elisabetta Sgarbi ha lanciato i primi piatti in aria per rimettere a posto le cose e avere qualche aspirante scrittore degno di questo premio. Ma per ottenere un risultato migliore dovrà rompere ancora tutti i bicchieri e sacrificare anche il servizio buono.