MARIA PIA MONTEDURO | Marco Bellocchio dirige Cechov a teatro. Già questa è una notizia positiva, per l’incontro appunto a teatro tra uno dei più impegnati e geniali registi di cinema – e in rare occasioni operante sul palcoscenico – e un drammaturgo “classico” che negli ultimi anni (per fortuna) viene rivisitato per svecchiarlo e togliergli quell’aria cupa e un po’ opprimente, troppo spesso utilizzata sue nelle messe in scena. Proprio con il testo “Zio Vanja” qualche stagione fa Gabriele Vacis aveva realizzato un’edizione memorabile del testo cechoviano, evidenziando la vis comica, meglio umoristica e sarcastica, che il drammaturgo russo pone, se pur in controluce, nelle sue opere, anche in quelle ritenute drammatiche tout court.
Marco Bellocchio si accosta con dichiarato interesse allo scrittore russo e affronta l’analisi dei personaggi con rigore e lucidità. Ogni personaggio cechoviano ha un pro e un contro e Bellocchio riesce a farli convivere, con grande forza registica, traendo da ogni attore il massimo. I temi della natura, dell’amore per i boschi e gli alberi (costante non solo scrittoria, ma anche umana e personale in Cechov), dell’accusa senza scusanti per lo scempio che l’uomo fa del pianeta, qui affidati alle “prediche” del dottor Astrov (Pier Giorgio Bellochio), illuminano l’intera narrazione. Le scene di Giovanni Carluccio danno aria anche alle scene d’interno, sapientemente puntualizzate da un disegno luci quasi cinematografico (ma non è questo un appunto, anzi) anche di Giovanni Carluccio. Ogni personaggio, si diceva, con le proprie luci e ombre, si appoggia e nel contempo si discosta dagli altri protagonisti, accentuando il senso di solitudine ontologicamente umana propria del teatro cechoviano. Non mancano i siparietti umoristici, molti dei quali affidati al personaggio del professor Aleksandr Serebrjakov (un piacevolissimo Michele Placido, “domato” da Bellocchio nei suoi tentativi istrionici, che presenta così un cameo di ottima presenza e spessore): come troppo spesso ormai succede, il pubblico confonde umorismo e arguzia con comicità e ride a gola spiegata di battute sottili e ironiche… Qualche problema con l’audio, dovuto a un uso non corretto dei microfoni di sala. Ma la razza di attori che sa recitare senza microfoni è estinta?
Su tutti, come vuole il testo, emerge la figura di zio Vanja, affidato a una positiva interpretazione di Sergio Rubini. Maturo per affrontare un personaggio così spinoso come questo, Rubini lo interpreta con grande naturalezza, cogliendo il continuo dilemma della struggente malinconia che oscilla tra abulia e velleità rivoluzionarie, tra voglia e paura di vivere, tra desiderio di gesti eclatanti difficili da gestire e rassegnazione alla piattezza dell’esistenza. Rubini si muove con angoscia sul palcoscenico, quella stessa angoscia che dà a Vanja il profondo senso di frustrante insoddisfazione e nel contempo di paura di affrontare la realtà.
Bellocchio è sempre attratto dagli opprimenti legami familiari che plasmano la psiche dei suoi personaggi, ma nel contempo danno una qual sicurezza: dall’esordio fulminante dei suoi Pugni in tasca (1965) all’ultimo film Bella addormentata (2012), il tema familiare, nelle più diverse sfaccettature, è sempre presente. Anche zio Vanja, in definitiva, racconta la storia di una famiglia, un po’ allargata si direbbe oggi, dove le dinamiche dei rapporti tra i componenti viaggiano su due livelli: quello ufficiale, regolato dal rispetto dei ruoli ufficiali, e quello sotterraneo (corrosivo come un fiume carsico) che muove tutta la vicenda.
Alla fine della prima romana al Teatro Quirino, a ricevere i meritatissimi applausi in un teatro affollato, esce anche lui, il regista, con il suo giaccone un po’ sessantottino che lascia intravedere (per noi che abbiamo vissuto gli ultimi battiti del ‘68) una coerenza che il passare degli anni e i tanti successi non scalfiscono. Meno male!
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