MARIA CRISTINA SERRA | C’è sempre un angolo di mondo dove trovare riparo all’assedio delle immagini scomposte e riscoprire i silenzi carichi di senso, lontano dal frastuono del superfluo. Un riquadro di tempo e di spazio consolatorio, intessuto di leggerezza, che lascia intravedere le cose fuori campo, così che la banalità e l‘infinito possono trovare le loro convergenze. Nel gettare “un doppio sguardo sul mondo visibile presente e su quello evocato, una specie di alone che abiterà persone e luoghi” è stato maestro sublime Luigi Ghirri, fotografo innovatore e sperimentatore, morto prematuramente nel 1992, che dopo vent’anni di oblio si è imposto al grande pubblico, per regalarci un’etica della visione e un’idea di Paese, in cui ritrovare la memoria di una identità smarrita. Dopo il MAXXI di Roma, la mostra “Luigi Ghirri “Pensare per immagini. Icone Paesaggi Architetture” andrà nei musei di Rio de Janeiro, Mosca e Shangai, per ritornare poi in Italia nella primavera del 2014, al Festival Europeo di Fotografia (ai Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia).
Una sorta di collante affettivo ha legato fra loro le tre sezioni tematiche “non tanto per rivedere con occhi diversi, quanto per la necessità di orientarsi di nuovo nello spazio e nel tempo”, in un percorso espositivo circolatorio per comprendere lo sradicamento del nostro vivere: “questo dover continuamente ritrovare il filo conduttore, dipanarlo tra miliardi di piccoli dettagli e incroci fisici e mentali. Un continuo ritrovarsi e perdersi subito, di nuovo”. Merito della mostra è stato anche quello di ricomporre l’atlante intimo ed artistico di Ghirri, intessuto di amicizie, amore per l’arte, la musica e la letteratura, e la sua attività di editore e divulgatore, la propensione a legare le immagini fotografiche alla parola scritta, in un continuo rincorrersi e alternarsi di realtà e finzione, frammentazioni e ricomposizioni. L’estensione dell’occhio di Ghirri si avvicina alla realtà reinventandola di introspezione, come se il mondo interiore ed esteriore si fondessero in una epifania di toni sfumati e concilianti di razionale tenerezza. “La fotografia è una grande avventura del pensare e del vedere, un grande giocattolo magico, che riesce a coniugare miracolosamente la nostra adulta consapevolezza con il fiabesco mondo dell’infanzia”, annotava.
La folgorante immediatezza e semplicità delle sue istantanee racchiudono e disvelano un insiemecomplesso di significati miscelati in un abile montaggio. “Molti hanno scambiato queste fotografie per fotomontaggi, io li definirei fotosmontaggi”, scriveva negli anni Settanta, “la realtà in larga misura si va trasformando sempre più in una colossale fotografia e il fotosmontaggio è già avvenuto nel momento reale”. Estetica e conoscenza si combinano così nella sua arte dai contorni nitidi e dalle composizioni essenziali, piene di respiro ed esenti da virtuosismo. Le sue inquadrature già esistono nella realtà, attendono solo di essere catturate. Nel momento dello scatto, lui è lì sulla soglia per fare “l’esatta valutazione, il calcolo di ciò che deve essere tralasciato e ciò che deve essere compreso”. L’intento è di togliere più che aggiungere, spogliandosi del superfluo “per arrivare ad una forma di comunicazione il più possibile semplice”.
A volte gli viene in aiuto la nebbia, che fitta avvolge la Pianura Padana, sospendendola nella magia. Sembra galleggiare fra acqua e cielo, la casa di mattoni nella Valle di Comacchio, irraggiungibile, quasi inquietante, ma certa come i ricordi. I suoi “Paesaggi” sono un viaggio nella mente e nella memoria, hanno il profumo antico dei biscotti appena sfornati, distillati di normalità che creano intimità di vissuti e condivisione. L’artista sfiora appena le cose per meglio stringerle in pugno. Cattura il “Profilo delle nuvole”, raccoglie “il respiro della terra”, che impalpabile si tinge di ocra per sfiorare il grigio velato del cielo.
La leggera trasparenza di una vetrina di cappelli a Parma, con i profili delle case neoclassiche riflesse, definisce il giusto equilibrio fra il dentro e il fuori. Le innocenti geometrie di un’altalena sulla spiaggia segnano le stagioni in fuga. Il fumo di una sigaretta, che nasconde il viso di una donna seduta su una panchina solitaria a Parigi, sottintende una storia. Da una cornice di legno posata sulla sabbia a Marina di Ravenna si osservano le increspature del mare come riquadrate da un obiettivo. Le immagini in fin dei conti “sono enigmi che si leggono col cuore”. Positivo e negativo, penombra e luce accecante, assenze e presenze, stanze private e architetture solenni ci sembrano familiari. L’armonia della Reggia di Versailles è una cartolina intagliata a colori pastello; il cimitero di Modena è un cubo di cemento lontano, lo sguardo va al biancore della neve e alla cascata argentea dei rami spioventi. “Sentiamo che abbiamo abitato più luoghi, una sintonia totale che ci fa dimenticare che tutto questo esisteva e continuerà ad esistere, al di là dei nostri sguardi”.