VINCENZO SARDELLI | Il volo di Domenico Modugno come allegoria del sogno. Io provo a volare, reduce da Campo Teatrale a Milano, in arrivo a Calenzano, San Vito dei Normanni, Massafra e Trieste, è uno spettacolo che parte da cenni biografici di Domenico Modugno e dalle suggestioni delle sue canzoni, per raccontare la vita di uno dei tanti giovani di provincia pronti, sulla scia del mito, ad affrontare la fatica di diventare artisti.
Se le sfumature di questo spettacolo sono in qualche modo autobiografiche, allora “il ragazzo si sta facendo”. Protagonista è Gianfranco Berardi, autore, attore e regista di Crispiano (Taranto). Lo accompagnano suo fratello Davide alla voce e chitarra, e Giancarlo Pagliara alla fisarmonica (la regia è di Gabriella Casolari) in un percorso nella musica di Modugno fatto di riletture rapide e scanzonate, di arrangiamenti snelli che rifiutano ogni pedanteria: da Amara terra mia a Malarazza, da Donna riccia a Pasqualino Maraja, da Vecchio Frack a Nel blu dipinto di blu.
Che talento, Berardi. Che ai miracoli si sta abituando: quello di realizzarsi in pratica senza aver mai abbandonato il paesino dov’è nato; e quello di fare un po’ quello che gli pare sul palcoscenico, alla faccia della cecità.
In Io provo a volare lo spirito del custode di un teatrino di provincia torna in scena ogni notte, in compagnia dei suoi musicisti, nel teatro in cui è condannato a vagare e su cui mosse i primi passi. Tra narrazione, musica e danza rivivono episodi di vita: i sogni, gli incontri, la formazione, le selezioni, la fuga, la scuola, il primo lavoro, il rientro con un palmo di naso, da giustificare dopo le speranze naufragate.
Berardi ricorre alla figura di Modugno come metafora. Rende omaggio agli sforzi e al coraggio di quelli che, animati da una forte passione, si lanciano all’avventura nella ricerca di una dimensione più autentica.
Camicia bianca, pastrano nero e cilindro impolveratissimi, luci sul viso impastato di biacca, Berardi si accosta a uno stile recitativo che insegue gli stilemi classici di Eduardo e della commedia dell’Arte, con qualche gradazione che l’avvicina a Totò. Ramazza in mano e rime sulle labbra, giochi di parole con qualche escursione nel dialetto tarantino, monologhi a una, due, tre voci, Berardi riempie il palcoscenico non solo in orizzontale, ma anche in verticale, con il suo fisico allampanato. E quando non basta il corpo, è la sua ombra gigantesca e surreale, proiettata sullo sfondo dal gioco delle luci, a dominare la scena. Quel corpo produce capriole e danze istrioniche, mimi e balletti. Il viso bifronte, animato da occhi proiettati all’infinito in uno spazio scenico che è anche estensione vitale, esprime con intensità variabile e tanta ironia sofferenza e fatica, fame e freddo, ma anche sogno e redenzione.
Poesia e comicità sono gli ingredienti di uno spettacolo che, attraverso un uso onirico del buio e della luce, crea spazi profondi e atmosfere. Definisce suggestioni e ricordi, ridestando nel pubblico quel sogno di libertà di cui Modugno rimane simbolo.
La cecità di Berardi trasmette un alone fascinoso allo spettacolo, esaltandone la parte lirica, in un indistinto, multiforme volo notturno.
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