avarpVINCENZO SARDELLI | Quarant’anni, l’alba di una nuova vita. Quelli di Grock il loro “secondo tempo” hanno già iniziato a festeggiarlo con un pirotecnico Avaro di Molière, in scena al Teatro Leonardo di Milano fino al prossimo 1 gennaio.

Happy Birthday, Happy New Year. L’aria di festa fa vibrare questa compagnia, creata nell’aprile 1974 da Maurizio Nichetti e dai fratelli Intropido, legata a doppio filo alla storia del teatro milanese, con quell’aria scanzonata che la contraddistingue. Divertimento, dinamismo, fisicità; numeri da circo uniti a trovate sceniche brillanti, nel segno della coralità: è questa la filigrana di Grock. Che il meglio sembra darlo quando si misura con i classici, con la transazione da rigore e fissità verso l’innovazione. Attraverso la scompaginazione degli originali, e messinscene che dialogano con i linguaggi contemporanei.

E pensare che l’Avaro (1668) è esso stesso una rivisitazione, poiché s’ispira all’Aulularia (sec. III a. C.) di Plauto. Protagonista è il taccagno Arpagone, ossessionato fino alla psicosi dalla paura di essere derubato; arido, egocentrico, egoista. Figli e servi sono pedine nelle sue mani, fiches deputate ad accrescerne il patrimonio. Di qui la loro “congiura” volta a mettere in scacco Arpagone, nel tentativo di farne affiorare quel po’ di umanità.

Gli orpelli del teatro francese del Seicento ci sono tutti in questo caravanserraglio sfrontato: un palco girevole al centro della scena (creata da Claudio Intropido), quinte di drappi e stracci tabacco che si proiettano lateralmente verso la sala, dove campeggia, con scettro e mantello, un re scelto tra gli spettatori. E poi costumi d’epoca (di Anna Bertolotti); una colonna sonora spavalda stile Goran Bregovic, con due canzoni corali che aprono e chiudono lo spettacolo (di Gipo Gurrado con la Nema Problema Orkestar); una regia (dello stesso Intropido e di Valeria Cavalli, anche traduttrice e adattatrice del testo) tesa ad animare un movimento mai fine a se stesso, attraverso un pubblico trascinato in una complicità istintiva.

Lo stile di Grock si sposa bene con il teatro francese d’epoca barocca, con una poetica tesa verso gusto dell’artificio, elaborazione e ostentazione. Erano gli anni del Re Sole e di Versailles. Anche le luci, rossastre o notturne, riproducono qui interni da pittura francese (de La Tour), scene quotidiane da pittura olandese (Rembrandt, Vermeer, Hals).

Il palcoscenico è una girandola. Tutto ruota intorno a Sua Maestà il Denaro. In questa successione di scene e controscene (di Maria Chiara Vitali) veloci, mai isteriche, anche pareti e tende hanno orecchie. È un gioco metateatrale. Gli affiatati attori (oltre al bravissimo Pietro De Pascalis-Arpagone, ci sono Jacopo Fracasso, Cristina Liparoto, Sabrina Marforio, Roberta Rovelli, Andrea Robbiano, Simone Severgnini, Clara Terranova) giocolieri e saltimbanchi, guitti girovaghi, entrano ed escono dal personaggio e dal gioco drammaturgico. Fanno il verso ai classici. Riproducono caratteri da Commedia dell’Arte, senza mai prendersi sul serio.

Tutto è calibrato, senza avvitamenti né appesantimenti. Latinorum, fermo immagine, montaggio in parallelo, mimo, balli ammiccanti da café-chantant arricchiscono la festa di Quelli di Grock. Che finiscono la serata con un monito (filtrato mica troppo dalla finzione) sulla dura vita degli attori, sulla bellezza e fatica del mestiere. In un’Italia dove con l’arte non si mangia mai abbastanza.

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