cucinar ramingoRENZO FRANCABANDERA | Lo scoglio che affoga sommerso dall’acqua? Giù il vino sui mitili, in una pentola dove sta per nascere un riso alle cozze. 
E la foresta incantata che allunga i suoi rami al viaggiatore errante? E’ una lirica costa di sedano, che sta per finire insieme a cipolla e spezie in padella con l’agnello che sarà il complemento del riso, per una fantastica paella kosher doc.

Fra tegami ramati e oggetti di scena di puro design artigianale, a tagliare, preparare, abbassare e alzare la fiamma è Giancarlo Bloise, talento creativo multiforme, che ha trovato nel teatro un percorso adatto a raccogliere il suo istrionico sorriso. Fin da piccolo apprende la musica, compie studi di architettura, quanto basta per consentirgli di progettare oggetti di scena come quello che governa durante lo spettacolo (realizzato da Mentor Shimaj della bott. artigianale Wood-Stock Fi); ha una decennale pratica da chef kosher e una chiara propensione a mescolare le arti. Dopo la vittoria al Dante Cappelletti 2012, Cucinar Ramingo ha molto girato in estate fra i festival, da Castrovillari ad Operaestate. E perché ha girato?

Perché è un lavoro che si coagula intorno all’anima, e attraverso un testo fatto di storie della tradizione ebraica, di quell’insieme di aneddoti parabiblici e barzellette sulle piccole trasgressioni ai rigidi precetti religiosi, familiari per chi segue il teatro grazie ad artisti come Ovadia, arriva al cuore dello spettatore.

Ci arriva con un meccanismo molto semplice che fa leva su un buon racconto, lo sfasamento fra parola e gesto (e quindi dove possibile l’assenza di didascalia), la sorpresa scenica (quell’eye catcher che in questo caso è tutto nella cucina circolare che occupa la scena e da cui, come da un’elegantissima borsa di Mary Poppins, Bloise estrae ingredienti, oggetti, taglieri). Tutto lì, apparentemente sotto gli occhi, in realtà svelato e poi abilmente celato, come le minestre in cottura, prima mostrate e poi scoperchiate solo alla fine, per esser mescolate in un’unica pietanza.

Dal punto di vista tecnico e drammaturgico, la prossimità con Scabia (al cui In capo al mondo è ispirata una parte del racconto) e l’influenza della scuola dell’Odin, nella persona di Tage Larsen, si riflettono in una recita gestuale e partecipata. S’ode qui e lì l’eco finanche mimica di Carmelo Bene, specie sulla parola spezzata e a volte quasi scuoiata del suo senso comune.

Bloise arriva vestito da cuoco, inizia a parlare dell’uccellino che ramingo salta incerto, apre il tavolo, non prima di averlo reso barca, cavallo e cento altre cose; poi inizia ad estrarre da queste due piccole torri lignee circolari, come da dentro una matrioska, tutto quello che serve per cucinare.

Il lavoro, di un adorabile artigianato, s’indora in un’apparente imperfezione e sobbolle di parole antiche. Forse in un paio di passaggi, sul finire della recita, si perde qualche nesso logico, per una finta fiaba che comunque arriva al suo finale prima che la minima ombra di noia o distrazione possa allungarsi sullo spettatore, che invece curioso segue, cerca, annota perfino scetticamente quanto vino finisce in pentola, i miscugli di spezie che vengono versati, quello che appare troppo peperoncino. Si finisce poi fare la fila e gustare a mani nude, utilizzando le valve delle cozze, la paella appena preparata.

Lo spettacolo arriva giusto, cuoce il riso al dente, schiude l’animo dello spettatore con il calore che promana dal sorriso di Bloise. Sarà pur ammiccante il rapporto fra cibo e teatro, ma occorre saper cucinare e avere una buona storia. In questo caso, perdersi è dolce, naufragando in un mare di vino, nel rumore delle onde che urlano, reso alzando la fiamma della cucina a gas. Ogni piccolo gesto è curato e sorprende. 

Con Cucinar Ramingo si chiudono gli appuntamenti 2013 di Stanze a Milano, rassegna di teatro in casa curata con altrettanto cuore da Alberica Archinto e Rossella Tansini. In questo caso non di stanze s’è trattato, ma del ristorante Carminio, che si è prestato all’allestimento. 

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