ELENA SCOLARI | Caffè, presepe, capitone. Cosa immaginiamo di più napoletano? Cosa immaginiamo di più banale e casalingo? Eduardo De Filippo invece mette quasi la vita intera in queste poche povere cose. Natale in casa Cupiello è apparentemente un quadro di famiglia semplice, ma la messinscena vista al Piccolo Teatro Studio Melato ce ne svela, più di altre, la complessità.
Fausto Russo Alesi (suoi adattamento e regia), ha avuto l’idea di realizzare lo spettacolo da solo, si fa attraversare da tutti i personaggi: Luca Cupiello, la moglie donna Concetta (interpretata con un evidente ricordo di Pupella Maggio), i figli Ninuccia e Tommasino, il portinaio don Raffaele, lo zio, tutti. Il corpo e la voce dell’attore si fanno sapientemente abitare da questa piccola folla e tale scelta fa emergere ancora più chiaramente i tanti significati dell’opera di Eduardo. Vedere un bravo, bravissimo attore diventare trasparente a favore dei personaggi è un piacere e insieme una lezione. può sembrare egocentrismo, certo, ma al netto della vanità di chi recita, il lavoro di Russo Alesi è sinceramente a favore dei personaggi, del testo e del senso dell’opera.
In una scena fatta di una pedana spoglia e con pochi oggetti evocativi come una testa di Gesù bambino, un lampadario con luci tremule, l’attore si muove nel suo abito grigio caratterizzando gli uomini e le donne della commedia con la voce, con l’intonazione, con l’espressione del volto. Sono strumenti base, sì, certo, ma che non spesso vediamo maneggiare con tanta capacità: qui ci rendono proprio l’essenza delle persone, della loro umanità, in questo senso sono mezzi “essenziali”. Essenziali come questo tipo di teatro, fatto anche grazie alle scene pulite di Marco Rossi (recente premio UBU per Panico di Luca Ronconi), alle luci livide quanto basta di Claudio De Pace e alle musiche di Giovanni Vitaletti, che vestono ogni personaggio di un suono diverso.
E’ così che capiamo meglio cosa De Filippo ci vuole dire col suo Natale: la sua ossessione partenopea per il presepe non è solo il richiamo alla tradizione ma la volontà (vana) di preservare un piccolo mondo protetto, dove tutti sono al loro posto, dove nulla muta, dove non ci sono sorprese. E invece le sorprese ci sono eccome! Figli con un avvenire precostruito che in quel presepe non sono felici affatto, e che lo rompono, lo mandano letteralmente in pezzi, ne vogliono uscire. Donna Concetta ripete ogni mattina al marito quel “Lucariè: scétate ca songh’ ‘e nnove”, come un ritornello disincantato e affettuoso che è anche tentativo di comunicare quello che sta cambiando, quello che Cupiello non vuole vedere, rimanendo in un sopore esistenziale. Il risveglio gli sarà infatti fatale, non reggerà alla scoperta di ciò che forse voleva gli rimanesse ignoto: tradimenti, disordini, bugie, meschinità.
Parliamo non a caso di ritornello perché lo spettacolo è una partitura, uno spartito di battute e personaggi in cui R. Alesi entra ed esce continuamente con un ritmo incalzante, il ritmo anche della lingua napoletana, non sempre del tutto intelligibile a noi del nord ma proprio perciò ancora più melodiosa.
L’ironia del testo è magnifica, è il mezzo per fermarsi sempre un passo prima del sentimentalismo. Alcune situazioni sono irresistibili per l’umorismo perfido con il quale don Luca mostra i difetti dei membri di famiglia e ci racconta la visione di una società fortemente influenzata dal censo, si può invitare un’ospite in più alla cena della vigilia perché “quello mangia poco: è un signore”. Il signore in questione è ospite scomodo in quanto amante segreto della figlia ma Cupiello non ne sa niente, e qui vediamo la costruzione teatrale di equivoci spassosissimi nella loro piccineria umana.
Il caffè. Il quotidiano caffè mattutino che la moglie non sa fare e che puzza di scarrafone è un elemento che rimanda all’abitudine a ciò che non funziona ma che si affronta ugualmente, con rassegnata cocciutaggine, il protagonista ne critica il cattivo sapore tutti i santi giorni ma con attaccamento, in fondo non ne potrebbe fare a meno, ne’ lui ne’ donna Concetta possono fare a meno del rito domestico.
La fuga del capitone dalla cucina natalizia è esilarante, ci spingiamo molto in là e facciamo una spicciola ermeneutica del capitone: ci vogliamo leggere l’avvicinarsi di una fuga più grande, quella dal presepe infranto, dalla vita e da un mondo che don Luca non capisce più e che presto lascerà.
La morte lo coglierà ancora in un presepe: lui nel letto come un bambinello, circondato dai parenti stretti, vicini, poco più in là gli amici, circonfuso dal calore di un’illusione. L’ultima illusione.
Lo stoicismo di Tolstoj (La morte di Ivan Il’ič) è meglio del nichilismo sentimentale di De Filippo.