VINCENZO SARDELLI | Un uomo in cerca d’idee per risolvere la propria crisi. Uno spettacolo calato nei nostri anni: d’incertezze psicologiche ed esistenziali, ricerche ansiogene di nuove identità e di riferimenti stabili. È A-Men, gli uomini, le nuove religioni e altre crisi, il nuovo monologo comico di Walter Leonardi, che ha aperto il 2014 al Teatro Leonardo di Milano. Giusto per non illuderci che basti un nuovo anno per cambiamenti taumaturgici.
A-Men è titolo polisemico, di rassegnazione e disumanizzazione. Proietta verso l’incertezza.
E così inizia lo spettacolo. Con un uomo che parte convinto, e poi dimentica quanto stava per dire. Cerca la fuga e sbatte nella realtà. E allora inizia un viaggio dentro se stesso. Contempla le molteplici illusioni che da uomini ci imponiamo per trovare la forza di andare avanti. In una società che propone il modello dell’apparire, saremmo disposti persino a venderci un rene per una cena a base di branzino.
Tante sfaccettature in quest’umanità dall’identità amorfa. La ricerca di religioni risolutrici nel solco della tradizione, cristianesimo, islam, ebraismo, buddismo; il dirottamento verso nuovi riti, New age, Scientology, tifo calcistico. Tutti insieme nello stesso calderone.
Può capitare di non essere riconosciuti al telefono persino dalla propria madre. Allora non resta che scaricare la frustrazione trasformandoci in sciamani coperti di pelle di pecora. E rivolgerci a Steve Jobs, «padre creatore dell’i-cielo e dell’i-terra», in una preghiera che è un po’maledizione, e sgozzare l’i-pod in un rito catartico e catatonico, dal tribalismo hi-tech.
Chiacchiere da bar e invettive feroci completano questo spettacolo che Walter Leonardi ha scritto con Carlo Giuseppe Gabardini, con la collaborazione di Paolo Li Volsi.
Un monologo che spesso diventa confronto intimo a due voci, tra luci soffuse, sospeso tra dramma e ironia. Che manca di reali sfumati di poesia, nonostante gli intenti dichiarati. In fondo si tratta del classico spettacolo che si avvicina molto al cabaret, con qualche luogo comune, che non rivolge abbastanza lo sguardo verso scenari futuribili.
Anche gli espedienti scenici (ruote di bicicletta che danzano, sagome fluorescenti, finale metafisico con l’attore sperduto in un gigantesco cuscino-campana trasparente sotto le note di Across the universe) che provano a dirottare il monologo verso registri onirici di teatro di figura, sono appena accennati. Così sul piano recitativo e attoriale si poteva osare qualche variazione in più, oltre alla voce al microfono, qualche pantomima, un’uscita veloce a passo di tango e un paio di travestimenti.
Infine: è sufficiente come morale la scelta rassegnata di «restare nelle cose», di sprofondare in un divano e aspettare l’azione metabolizzante degli acari, per dare significato all’ora di spettacolo? O, peggio ancora, per rendere la vita vivibile?
Risposta non c’è. A-men.
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