GIULIA MURONI | Tra coloro che emigrano s’impone la volontà di ricordare. Ma il ricordo che affiora con più insistenza è quello delle proprie ferite, a partire dalle quali si trova definizione di sé e energia vitale per fare arte. Nello stesso tempo è necessario l’oblio, l’arte di dimenticare per rendere possibile il decentramento del proprio io, lo sradicarsi della propria esistenza.
Queste le suggestioni con cui Ornella D’agostino, associazione Carovana S.M.I., presenta il suo video “Dio minato” alla serata “Transiti. Voci di donne migranti”. Serata ricca al Piccolo Auditorium di Cagliari, nata dal progetto di ricerca curato da Emanuela Cara, la quale si è occupata delle migrazioni in Sardegna di donne provenienti dal Marocco, dall’Ucraina e dalla Romania in un’ottica transnazionale, accogliendo cioè il punto di vista delle migranti e dei loro affetti rimasti in patria. Uno studio etnografico in forma di videointervista ritrae in soggettiva i volti delle donne che si raccontano. Benché i loro corpi e il loro tempo siano prestati ad un lavoro di cura totalizzante, i pensieri ritornano alle famiglie lontane, a quelle radici spezzate, potate con dolore nella speranza che crescano più forti. Divise dalle vite di figli cresciuti dalle rimesse mensili, mariti che prendono altre strade, genitori ammalati in solitudine, raccontano storie di ordinaria sofferenza, in cui l’intervistatrice scompare per lasciare spazio e voce a queste donne che producono la propria personale narrazione di sé, finalmente come soggetti.
La Sardegna, terra che ora accoglie queste ferite, è essa stessa segnata da cicatrici, solchi profondi come miniere. Alle voci delle migranti fa da contrappunto infatti la vicenda di Maria Pani, operaia cernitrice in miniera che, portata via dalle janas (fate del folklore sardo), divenne ossidiana, basalto, granito, steatite. La sua storia di sofferenza e perdite, scritta con tocco poetico da Bruno Tognolini, è letta da Gerardo Ferraro con l’accompagnamento della chitarra di Roberto Palmas. Tognolini stesso darà una lettura efficace, cadenzata dai ritmi della parlata cagliaritana, di una nenia in rime che, a partire dalla sua vita di sardo migrante negli anni ’70 verso il continente (“Portami via, portami via Tirrenia”), percorre la propria esistenza con levità (“Il continente è un’isola più grande, le risposte divennero domande, le domande fanno buona poesia, la miseria diventò filosofia”) , fino alla migrazione della “figlia continentale che cresceva, un bel giorno cambiò e divenne nuova, divenne rospa ch’era principessa e la sorte cambiò e fu la stessa”.
Come a dire, e questo è il vero tema della serata, che in fondo siamo tutti migranti quando ci mettiamo alla ricerca di una vita migliore, perciò nessuno è clandestino o meglio “lo siamo tutti quando questa possibilità ci viene negata”. Il nomadismo degli artisti conduce alla riscoperta di luoghi migrati e paesaggi interrotti, in trasformazione. Con “Dio minato” , videoproduzione di Carovana SMI, regia di Ornella D’Agostino, musiche di Luca Nulchis e immagini di Raul Anderson, si ritorna nelle miniere sarde attraverso i luoghi di Su Suergiu a Villasalto (Iglesias) e nei lineamenti della cernitrice Maria Concas. È lei a raccontare, in un misto di limba sarda e italiano, i ritmi serrati, la fatica di un lavoro disumano, l’atrocità della fame. E domanda ai suoi interlocutori:” Perché portate i bambini a sentire queste cose? Sono storie troppo tristi per loro.”
La signora esprime con poche parole una questione esistenziale e artistica fondamentale: quanto ricordare le proprie ferite? Quanto trasmetterle? Fino a che punto si estende la responsabilità di tramandare e quanta sofferenza deve essere dimenticata per crescere e fare crescere?
Forse una soluzione è quella suggerita dallo scrittore cagliaritano che, erede del genio di Gianni Rodari ( così definito da Concita De Gregorio) riesce a indossare le proprie ferite e gioie con la delicatezza e l’ironia necessarie per non farne un ostacolo. Per passare sulla terra leggeri.