ph Francesca Padovan
ph Francesca Padovan

RENZO FRANCABANDERA | Esistono talenti difficili da replicare da parte delle macchine, perché nonostante tutto la natura, il suo complessissimo sistema, l’evoluzione millenaria delle forme biologiche e le loro proprietà sono un miracolo che l’artificialità impiegherà ancora tempo per emulare e raggiungere, nella sua semplice complessità.

Se Turing nel secolo scorso aveva inventato un test per scoprire se ci si trova o meno davanti ad una macchina, adesso pare che la sfida impossibile per le macchine sia la semplicità, ossia non il riuscire ad essere potente quanto un cervello umano, ma il riuscire ad evadere dai percorsi logici preconfezionati, ad internalizzare quello che è il pensare “out of the box”. Questo vuol dire che ciò che davvero ci distingue dalle macchine, e questo vale un po’ in tutte le cose della vita, e per l’arte in particolare, è il riuscire ad un certo punto a trovare una soluzione biologicamente innovativa, fuori dagli algoritmi già presenti, e che porti all’evoluzione della specie.

Così anche a teatro, i grandi testi sono sopravvissuti perché hanno mostrato capacità adattive a punti di vista, letture, interpreti diversi.

In queste sere al teatro Oscar a Milano abbiamo assistito ad alcune repliche di Nostra Italia del miracolo (prod TrentoSpettacoli/Arkadis), tratto da Il mio Novecento di Camilla Cederna, drammaturgia e regia Giulio Costa e affidato all’interpretazione di Maura Pettorruso, senza musiche, senza variazioni di luci: solo la parola della Cederna, ricavata da centinaia di articoli e tale da costituire un viaggio nella storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, e l’attrice a darle corpo. Lei, un cestino tagliacarte grazie al quale riduce in coriandoli fogli di giornale, uno sgabello, un tavolino e poco più.

L’ambizione di un lavoro così duro sull’interpretazione è un gioco d’azzardo, un esperimento biologico estremo. Che può segnare un modo forte di pensare alla narrazione, o scivolare nella sua declinazione meno avvincente.

Per fare tutto ci vuole un fiore. Anche a teatro. Un fiore che non nasce spontaneamente in natura, ma in laboratorio deve esser messo in condizione di resistere alle serate gelide, in cui il pubblico in sala reagisce freddamente al sarcasmo del testo (da rivedere, per dare un respiro più profondo e sinusoidale all’andamento emotivo dello stesso), o che non si apra troppo nelle serate calde, in cui il pubblico si sbrodola, per poi appassire in fretta; un fiore trova nella naturalezza la sua complessità, con un’idea di sé che è già nel bocciolo e la capacità di adattarsi al mondo che lo circonda, magari prendendo il colore di un fiore vicino. Questo lavoro forse ha un’idea di sé un po’ rigida che lo rende ora come ora poco adattabile.

In fondo il fiore è l’eiaculazione di una pianta. L’incontro fra un seme e un terreno in cui germogliare. Qui c’è un seme (il testo e il progetto registico che ne deriva), c’è un terreno (l’attore e il suo lavoro su se stesso). Allo stadio attuale il primo pare necessiti di più tempo per capire bene le caratteristiche del secondo (e viceversa, ove del caso). Giusto così, per evitare un’eiaculazione precoce. O un germoglio fuori stagione.

La pianta deve avere un tempo giusto per alimentarsi del terreno (e il terreno, specie quando zolloso, di dissodarsi per cedere chimica alla pianta) e dare il meglio di sé.