COSIMA PAGANINI | Difficile tirare fuori le parole. Provo a leggere i critici. Inutile, meglio fare come al solito e riallacciami ai ricordi della giovinezza di qualche zia.
Per chi viveva in provincia in uno di quei paesoni di 30 o 40mila abitanti le occasioni di vedere spettacoli dal vivo erano poche e per questo ci si abbonava alla stagione teatrale organizzata dal Comune e che si svolgeva in un teatro/cinema o in cinema/teatro. 6 o 7 spettacoli da novembre a marzo, se la pasqua era bassa, o ad aprile, se era alta.
Zia Erminia si acchittava e andava ad applaudire lo spettacolo con l’amica Ninì, sorella del sindaco. Il repertorio comprendeva classici “rivisitati”: Shakespeare, Cechov, Goldoni e (di nuovo) Shakespeare, e drammaturgia contemporanea “classicizzata”: Ibsen, De Filippo, Cechov (non era anche un classico?), O’Neil, Ionesco, Brecht, Pirandello e Williams. Sul palco si vedevano: Lojodice/Tieri, Pambieri/Tanzi, Gassman/Pagliai, Manuela Kustermann, Geppy Gleijeses, Gigi Angelillo e Ludovica Modugno e se il sindaco voleva proprio fare una bella figura metteva in stagione anche Albertazzi.
La scelta del repertorio era ristretta a una rosa di testi familiari di autori sui quali da almeno dieci anni non si discuteva più. Erano molto apprezzate scelte “coraggiose” di autori che ricordavano lo zio molto sensibile che va in giro col borsello e l’abito di seta (chi non ce l’ha?) I paesani si scandalizzavano per nulla, ma non di quello. Peggio era annoiarli. Di addormentarli poteva succedere e andava bene: di cosa avrebbero parlato, altrimenti, le mogli a cena dopo teatro? Lo sanno tutti che il teatro non è proprio una cosa da uomini del tipo vir.
Non erano ben viste regie spericolate, impegnate, sperimentali. Un palco spoglio con gli attori che restano sempre in scena, riflettori puntati sul pubblico e quattro gigantografie che pendono, bastavano a far partire i sussurrini – è l’avanguardia, il teatro di ricerca – e l’amica Ninì, se intravedeva un sorriso compiaciuto, diceva a zia Erminia: pensa che gli avevo proposto di nuovo Beckett al sindaco (mio fratello) ma lui dice che dopo quell’infelice giornifelici ha chiuso con questi giovani del terzo teatro. Inutile dire che avanguardia, terzo teatro e teatro di ricerca erano solo parole sentite dalla moglie del notaio e madre di una ragazza che era andata a studiare addirittura in Danimarca (come se il teatro ora si dovesse studiare) con un tipo italiano della bassa Italia!
Nel pubblico c’era anche, e sempre, la coppia di intellettuali (lui docente universitario, lei insegnante al liceo locale) che aveva studiato a Firenze e che si lamentava. Prima degli spettatori compaesani ignoranti e poi del fatto che quegli stessi spettacoli, che avevano già visto a Firenze o a Roma (dove andavano a incontrare gli onorevoli compagni) lì, al paese, erano spenti, peggiori. Poi lui si lamentava (poco all’epoca) della dizione non proprio perfetta, della recitazione sciatta e delle scenografie riadattate per quel palco striminzito e che faceva assomigliare quelle rappresentazioni a quelle delle compagnie amatoriali locali. Ma si sa, la provincia svilisce, davanti a questo pubblico di commendatori democristiani anche Gassman si farebbe più basso…
Il pubblico di commendatori e commendatrici democristiani, oggi pieno di figli che “studiano” teatro non solo in Danimarca ma addirittura in Russia e Giappone, avrebbe apprezzato Zoo di vetro (di e con Arturo Cirillo) e si sarebbe sentito molto moderno e all’avanguardia per essere in grado di capire e farsi piacere Cirillo. Non viene forse dalla danza? Non ha ricevuto premi UBI, Histro e Bistrò? Inoltre, questo Zoo di vetro può vantare la recitazione “dolente” di Monica Piseddu e quella “indolente” dello stesso Cirillo. L’interpretazione della madre di Milvia Marigliano è “intensa” e canonica, da manuale (“Figure e figurine di madri esemplari”, III dvd del corso di recitazione per tutti allegato alla rivista Teatro e Teatri). Edoardo Ribatto, intenso come il personaggio di Jeff Daniels nella Rosa Purpurea del Cairo, sembra essere pronto a sbarcare su una serie televisiva di prima serata, remake del tenente Sheridan, nel ruolo del protagonista. E non manca l’armadio delle meraviglie a ricordare la Cenerentola disneyana o qualsiasi altra favola dove l’armadio è la porta di un mondo altro (le cronache di Narnia di C. S. Lewis).
E i professori? Lui avrebbe detto: ma la dizione non la studia più nessuno? E perché uno dei personaggi ha quella forte cadenza napoletana? Hanno spostato l’azione ad Afragola e non lo hanno scritto nel programma di sala? Mi ha messo su due canzoni di Luigi Tenco per farmi piangere? E la professoressa: ma cosa ti importa della dizione e della cadenza paesana? È molto più grave che ancora si metta in scena un testo, invecchiato più di zia Erminia, solo perché il pubblico possa appigliarsi a qualcosa e non perdere il filo del racconto dopo un sonno di 5 o 15 minuti. Non tutte le cose sono destinate a invecchiare bene. E anche le cose invecchiate bene non stanno bene a tutti. Questo allestimento sembra un vestito degli anni cinquanta indossato da una donna che è stata giovane negli anni cinquanta. Un vestito vintage è un bel vestito vintage se lo indossa una bella ragazza giovane, altrimenti è solo un vestito vecchio e ridicolo. Tennessee Williams che era intelligente e mondano questa cosa ce la spiattella attraverso il personaggio di Amanda. E per chiudere: è triste vedere queste quattro persone che “recitano”, ognuno nella propria bolla e non riescono mai a essere sullo stesso palco, sullo stesso testo, nello stesso momento. È triste che non riescano mai a “essere”. (… e se mi vedi piangere è colpa di Tenco e Dalilà… o della menopausa).
Ma io lo so: a zia Erminia Zoo di vetro sarebbe piaciuto proprio così e per anni lo avrebbe ricordato come uno degli spettacoli più belli rappresentati al Cinema/Teatro Excelsior.