MARIA PIA MONTEDURO | Colpisce in Marco Paolini la capacità di cambiare e nello stesso tempo di restare sempre se stesso. Ufficialmente l’ultimo spettacolo che porta in tournée Ballata di uomini e cani. Dedicato a Jack London (in questi giorni all’Argentina di Roma) non è più uno spettacolo autobiografico né di teatro civile. Ma fino a un certo punto. Jack London è un autore che ha influenzato molto l’infanzia di Paolini, per sua stessa ammissione. E non poteva che essere così per un autore assurdamente ritenuto scrittore appunto per l’infanzia e per un ragazzo nato nell’incantesimo delle Dolomiti. E questo per quanto riguarda l’autobiografismo ufficialmente non più presente. Per il teatro civile nemmeno si può dire che non sia una categoria teatrale impiegata dall’attore/regista veneto. Se infatti, solo apparentemente, lo spettacolo è un affettuoso omaggio allo scrittore statunitense, in realtà è un intelligente pretesto per raccontare e nel contempo analizzare il rapporto uomo/animale (e quindi uomo/natura) e realizzare un’analisi “alla Paolini” sul confine tra vagabondo ed emigrante, quanto mai attuale e drammaticamente presente nella quotidianità.
Paolini è innanzitutto uomo di teatro, animale da palcoscenico, grande incantatore di pubblico. E allora eccolo arrivare in scena con musicanti dal vivo: “La London, pardon, la Jack London Orchestra” formata da tre elementi che fanno a gara a chi è il più bravo (Lorenzo Monguzzi chitarra e voce, Angelo Baselli clarinetto, Gianluca Casadei fisarmonica) per accompagnare ed evidenziare i momenti salienti dei racconti che Paolini trae dalla vastissima produzione di Jack London, interpretando tre racconti che hanno un cane come protagonista. Un racconto buffo (Macchia), un racconto tragico (Bastardo), un racconto inquietante (Preparare un fuoco). Tre aspetti della vita del cane, e nel contempo dell’uomo, dove il confine tra le due esperienze esistenziali si sovrappone e si annulla l’uno nell’altro. La scenografia è scarna, sobria, essenziale: alcuni grandi bidoni, un soppalco e sullo sfondo, tramite una suggestiva video-animazione curata da Simone Massi, spesso scorrono immagini di cani nella neve, stile Zanna Bianca, per restare in tema londoniano.
Marco Paolini recita, narra, affabula, canta, scherza con il pubblico (non ammicca, scherza!) che incuriosisce, stimola, pungola, fa pensare. Non sa e non vuole rinunciare a far pensare il pubblico, porgendo, quasi inaspettato commento di commiato, proprio in chiusura, una ballata dedicata a Zaer, giovane afgano arrivato con mezzi di fortuna (sai che fortuna emigrare…) in Italia e poi morto in autostrada, come succede a tanti cani… Ma Zaer teneva un diario con alcune riflessioni intime: poesia pura. Di nuovo il teatro di narrazione e di affabulazione di Paolini si sposa con l’impegno civile, con la denuncia della situazione pesante che vive il migrante, che non è il carismatico vagabondo che fu lo stesso Jack London (ispiratore anche di Kerouac), ma un essere disperato che cerca una vita non si può nemmeno dire migliore, ma semplicemente umana. Per alcuni migranti, considerate tante situazioni dell’opulento mondo occidentale, che esagera in tutti i suoi comportamenti, basterebbe soltanto “una vita da cani”.
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