LAURA NOVELLI | Una lunga panca chiara rimanda l’idea di un luogo-non-luogo dove si aspetta qualcosa o qualcuno. Uno studio medico, forse. Ma anche una panchina su cui sedersi per scambiare due chiacchiere. Un sostegno agli affanni della vita, della vecchiaia. Un rifugio in cui rintanarsi quando si vuole fuggire qualche minuto dalla realtà. E’ qui che il guaritore, protagonista dell’omonima pièce scritta da Michele Santeramo (Premio Riccione nel 2011) e portata in scena da Leo Muscato al Teatro Valle Occupato nei giorni scorsi dopo l’anteprima a Castel dei Mondi, scava nei recessi dell’animo altrui per lenire le ferite più amare, i dolori più intimi.
Questo vecchio dall’aria trasandata e stralunata (lo interpreta Michele Sinisi, egregiamente in sintonia con una caratterizzazione decisa ma quanto mai poetica e vera) vive seduto, attaccato ad una flebo con la stessa distratta veemenza con cui sta attaccato alla bottiglia, alla camicia sporca di una settimana, o alle sue vecchie canzoni di Elvis Presley. Ogni tanto litiga con il fratello minore (Gianluca delle Fontane), colorando di farsa anche i dialoghi più tragici, le recriminazioni più amare. Parla un dialetto pugliese volutamente “sporcato”, pieno di intercalari e di virate auliche: snobistici tentativi di sentirsi diverso, altro, un eletto ormai stanco di campare. Ma il guaritore, soprattutto, aspetta e riceve pazienti che cercano in lui un conforto, quasi fosse uno sciamano antico, un saggio acclarato, un daimon in contatto con gli dei (o con Dio). E lui li cura mettendo in relazione le loro storie, costringendoli ad un parlare/ascoltare votato giocoforza a provocare cambiamenti, scelte, traiettorie.
Dunque, a ben vedere, questo personaggio (ispirato tra l’altro a un vero contadino guaritore che “esercita” la sua attività in un piccolo centro della Puglia) è anche – e tanto più – una metafora del teatro: luogo diviso dal sociale in cui si raccontano storie e si innescano incontri capaci di agire nel cuore del pubblico. E come il teatro, il guaritore coagula in sé e attorno a sé tutto e il contrario di tutto: si ride, si piange, si aggrottano le ciglia in uno sforzo di comprensione, ci si lascia andare a situazioni surreali, parossistiche, buffe, stonate, stravaganti. Il testo del quarantenne pugliese – fondatore, insieme con lo stesso Sinisi, della compagnia Teatro Minimo di Terlizzi e autore di precedenti titoli quali, tra gli altri, “La rivincita”, “Le scarpe”, “Sequestro all’italiana” – mira a confondere le acque, i registri, gli stili. Il bozzetto farsesco dell’incipit, con quel botta e risposta “rissoso” che tanto evoca scenari da commedia dell’arte e passaggi dell’Eduardo più leggero, cede il passo poi a un andamento quasi beckettiano. O meglio, ad una grottesca galleria di personaggi che ricordano vagamente Copi, Ionesco, con però un afflato melodrammatico tutto italiano. Eccole le due donne disperate (le brave Paola Fresa e Simonetta Damato) che il guaritore è chiamato a curare: una moglie vibrante di nervosa impazienza e una single ribellatasi al suo stesso destino. La prima – abito bianco e fioco infantile in testa – si presenta dal bizzarro medico con il marito, un ex-pugile ormai fallito che vive solo nel suo sogno-show perfomativo tirando pugni a chiunque (salvo poi rivelarsi essere il deus ex-machina che risolverà il tragico epilogo del lavoro), ed è travolta dall’angoscia di non avere più tempo per fare figli. La seconda – tuta fasciante arancione e compostezza quasi orientale – non accetta di essere rimasta incinta e rifiuta la nuova vita che sta nascendo in lei.
Due storie dunque completamente agli antipodi. Eppure, sarà proprio costringendo l’una ad ascoltare la vicenda dell’altra e viceversa, che il vecchio guaritore indurrà queste due fragili creature a scegliere, decidere. Cosa non importa. Non è questo il punto perché qui in ballo c’è semplicemente la voglia/volontà di credere nel futuro, di fare tesoro delle esistenze degli altri, di riporre fiducia nelle relazioni umane, nello scambio di esperienze. Insomma, riporre fiducia nell’umanità. E la scena del rito, improbabile e sghemba, durante la quale avviene la miracolosa guarigione è quella che più di altre opera un cortocircuito significativo di tutte le linee tracciate nel testo: c’è l’enfasi del racconto e insieme lo sgambetto di una tromba foriera di risate; c’è la veridicità di un guaritore dedito al suo ultimo gesto d’altruismo e insieme continue interruzioni che abbassano i toni. Ne scaturisce l’idea di un puzzle scompaginato molto simile alla vita. C’è infine una lingua dialettale forte, decisa, musicale, variata. La consapevolezza, in definitiva, che solo rovistando nella saggezza popolare, nel senso di comunità, nel significato del linguaggio, nella forza micidiale degli incontri e delle relazioni, l’uomo del terzo millennio può ritrovare se stesso e arginare la solitudine di questo “mondo liquido – si legge nelle motivazioni della giuria del premio Riccione – dove per orizzontarsi non servono più le idee, né quelle vecchie né quelle nuove, ma dove gli esseri umani, con tutti i loro difetti, non smettono mai di aggrapparsi alla speranza che sia il confronto con un altro essere umano a salvarli”.
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