VINCENZO SARDELLI | Essere piccolo e pesante. Al contrario degli aquiloni, che sono grandi e leggeri. Il monologo Angelo della gravità (soggetto Massimo Sgorbani, regia Domenico Ammendola, con Leonardo Lidi, visto al Teatro Oscar di Milano) mette in scena la vicenda di un uomo condannato a morte per omicidio.
Colpo di scena: l’esecuzione è rinviata a data da destinarsi. Il detenuto è obeso. La corda con cui sarà impiccato potrebbe spezzarsi.
Inizia così un flashback nel passato del protagonista, partendo dall’infanzia. Su una scena con due pigne di palloni di lattice bianchi che riempiono in verticale l’occhio del pubblico. Palloni gonfiati come particelle d’adipe. Barriere contro le insidie del mondo. Soffici come l’uomo paffuto sul palco, in canottiera e mutande, su un cuscino esso stesso sinonimo di pinguedine. Dall’alto cala un microfono un po’ cappio un po’ gancio con il presente, quando il racconto psicanalitico del passato s’interrompe, e la voce metallica di Lidi dà corpo all’attualità, allo spettro dell’esecuzione.
Angeli della gravità e angeli della morte. Angeli come astronauti, che galleggiano nello spazio; o come diavoli, che cadono verso l’inferno, «il posto dove la pesantezza ha vinto una volta per tutte sulla leggerezza».
Uno spettacolo giocato sui paradossi. Tra infanzia dell’anima e crescita esponenziale del corpo. Tra i ricordi, i segni di un passato maledetto, e il loro impatto devastante sul presente.
Colpa, follia, incoscienza. L’incontinenza alimentare diventa sfrenatezza sessuale. Il cibo è compensazione di tormenti esistenziali. E allora la soluzione è la partenza per l’America. Con il pretesto d’imparare l’inglese. Per levarsi dai piedi. Per sfinirsi di cibo. In un luogo dove i panini sono quelli dei fumetti, i supermercati aperti anche di notte, gli obesi a ogni angolo della strada. E nessuno li chiama grassoni.
Eccessi bulimici e immaturità psicologica distinguono un personaggio che sovrappone amore e pornografia, e infierisce con naturalezza su una donna che rifiuta le sue avances. Un delitto che è delirio, antropofagia e necrofilia, e mescola eucaristia e potere (salvifico?) del sesso.
Nasce un duplice nodo critico: perché una pièce che affronta temi sensibili (giustizia, tolleranza, bullismo, affetti familiari, disturbi alimentari, sessualità, religione) esclude a causa della sfrontatezza verbale il pubblico under 16; e perché ci sembra pretestuoso che un poveretto incapace di distinguere realtà e fantasia, e capovolge ogni senso morale in un mix di follia e superstizione, sia mandato da solo allo sbando in un luogo come l’America, pur da una famiglia disfunzionale.
La regia carica i toni grotteschi. Lidi dà corpo a una recitazione a tratti arzigogolata, dalla sonorità ricercata. Del personaggio risalta la schizofrenia, non il dolore: l’ironia e l’inconsapevolezza, non la malasorte. Gli espedienti scenici (in primis le emissioni sonore e le luci, curate da Lorenzo Savi) disegnano un tempo dilatato, anch’esso ipertrofico.
L’epilogo della morte, è catarsi, epifania antigravitazionale. Finalmente i grappoli di palloni in scena possono staccarsi, sparpagliarsi sulla platea come tante lune, in un’emancipazione surreale che dovrebbe essere parusia. Il senso d’angoscia non arriva però al pubblico. Che attende la fine del condannato tra qualche risata e poche paranoie. Con il ricordo di qualche bella frase, ma con poche emozioni memorabili.