EMANUELE TIRELLI | Mettiamola così: se una ragazza è anoressica e voglio regalarle un braccialetto, non scelgo il colore rosso, con o senza libellula che sia.
Pochi giorni fa l’Italia ha salutato l’uscita di “Braccialetti rossi – Il mondo giallo”, romanzo fortunatissimo dello scrittore, regista, autore per teatro e televisione spagnolo Albert Espinosa. La storia è tutta autobiografica e racconta la sua esperienza con il cancro per dieci lunghi anni. Fortunato il libro e fortunata anche la serie tv “Pulseras rojas” che lui stesso ha tratto dal romanzo. La storia è piaciuta tanto perché considerata ricca di speranza, carica di umorismo e desiderio di vivere. E beh, anche strappalacrime, sì. In Italia il libro è uscito quasi contemporaneamente alla fiction omonima prodotta da Rai e Palomar, mentre negli Stati Uniti i diritti li ha comprati addirittura Steven Spielberg.
E quindi veniamo alla fiction, ma scavalchiamo giudizi approfonditi sulla qualità del prodotto perché purtroppo è scadente, ancora una volta scadente come tante fiction italiane da prima serata e non. Perché i protagonisti sembrano finti. E perché a volte, strano ma vero, ci sono elementi capaci addirittura di mettere in ombra la mancanza di qualità di un programma che affronta i temi della salute e dei giovani. Di mettere in ombra e rafforzare, allo stesso tempo, la totale assenza di porosità che pure ha stufato alla grande.
Raiuno, prima serata, sei appuntamenti domenicali e il primo andato in onda lo scorso 26 gennaio aggiudicandosi il primo posto nella classifica di fascia oraria per gli ascolti.
I protagonisti sono sei giovanissimi tra gli 11 e i 17 anni ricoverati in ospedale e con un braccialetto rosso al polso. Si fanno forza. Tra loro c’è un legame. Sono un gruppo. Diventano amici e vogliono sostenersi per affrontare le rispettive malattie. Lo hanno definito, non loro, ma la produzione, un inno alla speranza, una sfida. Allora c’hanno messo dentro tanti buoni sentimenti, criticità e tenacia e hanno deciso di cucire tutto addosso ai protagonisti. C’è chi non ha più una gamba e chi rischia di perderla per il cancro. Chi è in coma da mesi, chi ha una malformazione cardicaca o si è schiantato con la moto. E c’è una ragazza con problemi di anoressia. Anche lei ha il braccialetto, rosso, certo.
Quindi torniamo all’inizio. Moltissime ragazze con problemi di anoressia indossano braccialetti Pro-Ana (pro-anoressia). Anche le ragazze Pro-Mia (pro-bulimia) ne hanno uno. Rossi le prime, blu le seconde, preferibilmente con un ciondolo a forma di libellula o farfalla. Frequentano forum e siti internet dove si scambiano consigli su come dimagrire, nascondersi agli amici e ai propri genitori, cosa mangiare e quando, tenere un diario sul numero di calorie assunte ogni giorno. E il braccialetto per loro è un segno distintivo, di appartenenza, per sentirsi parte di un gruppo, di un percorso, per indicare, anche tra loro, di essere Pro-Ana/Mia, di aver sposato quella che considerano una vera e propria filosofia di vita. Che consente loro di controllare se stesse. O almeno di avere la sensazione di poterlo fare e con conseguenze devastanti.
Affrontare questo argomento è cosa assai complessa e delicata, ma anche necessaria. Mariafrancesca Garritano, ballerina solista della Scala di Milano, ha parlato dell’anoressia, l’ha raccontata nel perché e nelle modalità e si è espressa concretamente dimostrando come sia spaventosamente diffusa tra le ballerine. Ed è stata licenziata. Non faceva parte di gruppi pro-Ana e all’inizio, come molte altre, non sapeva nemmeno di avere davvero un problema. Forse anche per questo è giusto che se ne parli, quando si può, quando è rilevante, quando il gancio lo consente. E che se ne parli con un certo criterio.
Quindi, come dire, se conosco una ragazza anoressica e voglio farle un regalo, non penso al braccialetto rosso. E nemmeno se penso di renderla protagonista di una fiction, di un film, di uno spettacolo teatrale o della locandina che promoziona la sagra della castagna arrosto.
Per quelle che vogliono uscirne il simbolo giusto è un fiocchetto lilla.
Certo, vabbè, ma uno poi che ne sa.