GIULIA MURONI| “Continuiamo a frugarci l’un l’altro nella speranza di trovarvi qualcosa. Invece scopriamo che non vi è altro che il nulla.” Crollati i rincuoranti orizzonti metafisici, è facile cercare di sfuggire alla vacuità dell’esistente con un affondo delle unghie nel reale, appigliandosi alla carne nell’ingenuo tentativo di perdere i confini del sé e assurgere a una nuova meta-fisica, a un senso che vada oltre il corpo. Ma, spiega bene Merteuil, il vuoto delle esistenze terrene e finite non dà scampo. È nel corpo, è IL corpo. La camera d’ospedale, cornice post-umana dei dialoghi di Laura Marinoni e Valter Malosti, fa da scenografia a “Quartett”, visto al Teatro Carignano di Torino, che mette in scena i personaggi de “Le relazioni pericolose” di de Laclos, nella versione stringata e attualizzata di Heiner Muller. I due, il conte Valmont e la marchesa Merteuil, si sfidano in un duello verbale sferzante, senza sottrarsi ai colpi bassi, alla crudeltà del nichilismo, alla provocazione indecente, invertendosi di ruolo dentro una dinamica perversa di scambi e enfasi dell’osceno. Il letto d’ospedale su cui è adagiata l’attrice è il fulcro movente di una scena essenziale, curata con precisione che, insieme ai costumi, alla ricerca musicale e allo studio delle luci, compone un quadro efficace e coerente nel quale i due interpreti si muovono con tratto magistrale.
I due aristocratici libertini, vecchi amanti affini nell’efferatezza, parlano di sesso, di relazioni uomo-donna e dei propri trascorsi con la navigata e cinica esperienza di chi domina le dinamiche della commedia umana. Quando d’un tratto Valmont, colto dall’angoscia di una futura morte, azzarda un volo pindarico, Merteuil lo deride: “È proprio vero che la paura rende l’uomo filosofo”. Laddove “uomo” non è sostantivo neutro, ma designa il genere maschile. Come la servetta trace che ride di Talete, caduto in un pozzo mentre guardava il cielo. Chissà quanta filosofia come fondamea non ha come fondamenta che i più sommari travagli esistenziali, le fortuite quanto consuete tribolazioni dell’essere? E quanta la paura della morte?
La risposta è in un riso sardonico onnipresente e pervasivo, nell’ironia graffiante che raddoppia al momento dello scambio di ruoli, quando interpretano le loro presenti e future vittime: la vergine Mme de Volanges, Mme de Tourvel, Danceny. Qui la drammaturgia sembra incappare in momenti di verbosità e si rischia di confondere i soggetti parlanti. Ma il finale rimette in sesto lo spettacolo, con una chiusura ad effetto che, riportando in discussione tutto, condensa una verità truce.
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