Visita al padre _ disegno Francabandera
Visita al padre _ disegno Francabandera

RENZO FRANCABANDERA | Fossi insegnante, un alunno come Carmelo Rifici mi darebbe filo da torcere: ogni volta è un po’ una riffa, fra colpi d’intuito, citazioni d’arte ma anche, non di rado, idee di cui verificare l’impatto su strutture poi fragili. Regista capace a volte di creazioni limpide, altre di addensare nuvole barocche, soprattutto dove il testo pare debole, su personaggi portati verso estremi improbabili, così che alla fine, alla debolezza del testo, si aggiunge magari anche quella dell’azzardo registico. Che comunque mai manca, e di questo occorre dar atto. Nonostante la sua tensione verso la drammaturgia contemporanea, la maggior lucidità l’abbiamo incontrata nel rapporto con i classici o con testi d’oggi che guardano al classico.

Raccontiamo qui il caso di una riuscita positiva, quella di Visita al padre, di Roland Schimmelpfennig, drammaturgo tedesco vivente di cui diverse sono state in Italia le proposte negli ultimi anni, e in scena in questi giorni per una lunga tenitura al Piccolo Teatro Melato di Milano.

I suoi scritti più recenti hanno un’intrinseca, profonda, caratteristica di classicità pur virando spesso verso parossismi e illogicità. E così è anche per Visita al padre, che pare attingere a piene mani da grandi classici di fine Ottocento inizi Novecento, fra Ibsen, Strindberg e Checov.

La trama è quella di un figlio che va a far visita ad un padre che mai ha conosciuto, scrittore senza ispirazione, circondato da donne, nessuna delle quali è regina di scacchi, e anzi, tutte sono mezze figure, come nel sette e mezzo di Natale, un alveare senza ape regina dove si fa potente lo scontro generazionale e il segno implacabile del tempo.

L’arrivo del giovane, come in Checov, segnerà un momento di apparente discontinuità nelle vicende umane della casa, sebbene lui stesso in un cupio dissolvi dongiovannesco, tracci una parabola autodistruttiva degna del migliore Visconte di Valmont, seducendo tutte le donne di casa, affascinate dal refolo di vita giunto alla porta. Il resto è un asfittico mondo che attende, come in Checov o Ibsen, riscosse in un altrove che non verrà raggiunto mai.

L’impianto scenico di Guido Buganza appare da subito assai interessante. Uno spazio grande anteriore, un interstiziale esterno con due betulle spoglie e della neve, e un altro interno, come a chiudere il mondo in un seguirsi di pareti di vetro che, invece che rendere trasparenti i caratteri, li intorbidisce, mentre il mondo appare chiuso in un hortus conclusus che di poca cultura potrà darsi alimento. E, infatti, qui i libri sono addirittura murati “vivi”, buttati sotto la neve a marcire, come l’umanità che dovrebbe prendersene cura.

Gli attori tutti si fanno fondamentalmente interpreti di un gioco di squadra dove il recitativo più tradizionale di attori come la Bonaiuto (che torna qui convincente dopo un tempo un po’ appannato) o il Popolizio dal vocione sempre impostato, si mescola bene alla cifra dei più giovani, con calibri assai diversi, come quelli di Marco Foschi o Mariangela Granelli. A quest’ultima, poi, Rifici assegna (sempre) compiti fuori dall’ordinario: qui la sua recitazione volutamente straniante ed eccessiva è chiamata ad introdurre il segno della follia, della decadenza, a trasmettere l’idea del ricovero senza speranza. L’utilità di questa particolare scelta alla fine appare meno netta di quanto forse voluto, ma nell’andare delle repliche l’amalgama di questa figura con il resto del gruppo arriverà a miglior esito.

Consiglieremmo questo lavoro, pur lungo, ad un amico in cerca di una serata teatrale entusiasmante? Nonostante molte cose possano suggerire ex ante prudenza (la durata, la drammaturgia contemporanea di uno scrittore non facile, le discontinuità di ispirazione di Rifici nel biennio 2011-13), la risposta non sarebbe un secco no. Anzi. Certo, entusiasmante sarebbe parola grossa, anche in ragione di una certa inclinazione del regista al complesso, al groviglio e al mettere talvolta la cifra umoristica in secondo piano, se non addirittura in soffitta. Ma qui in realtà il testo, pur con diverse debolezze, definisce i contorni dei suoi personaggi, Rifici aiuta a leggerli ulteriormente, assecondando senza calcare la mano, evita finalmente di aggiungere, si tiene pulito e guida gli attori con uno sguardo al classico. L’idea è premiante.
Certo, non si ride. Qualche volta si sorride. Si pensa. Comunque c’è una certa persistenza di sapore a distanza di giorni che rende la bevuta interessante (e ci fa dimenticare qualche calice amaro).
Dopo dieci giorni, per dire, della trama qualcosa inizia ad evaporare, sopratutto nelle vicende delle molte (troppe) donne, ma si conserva nitido il ricordo della scena, delle situazioni drammaturgiche, dell’atmosfera e di alcuni momenti del recitato. Non è pochissimo.

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