VINCENZO SARDELLI | «Triste è quell’allievo che non supera il maestro», diceva Leonardo da Vinci. In C’era una volta un re, di scena al Teatro Leonardo di Milano fino al 23 febbraio, non si può dire che l’allievo Gianfelice Facchetti abbia superato il suo insegnante di teatro Claudio Orlandini. Però sorprende la capacità di entrambi di prestarsi al ribaltamento di ruoli, con Facchetti regista e Orlandini efficace protagonista in scena. Un gioco portato alle estreme conseguenze. Perché Orlandini da regista è solito muovere gli attori come trottole impazzite: predilige una recitazione convulsa, a tratti schizofrenica. Invece qui, da attore, è ingessato e introspettivo. E si lascia dirigere senza interferire. Paradossi della scena. E anche dei ruoli in scena. Perché proprio la schizofrenia è la condizione esistenziale del suo personaggio, Giorgio III d’Inghilterra. Dichiarato pazzo irreversibile nel 1811, rinchiuso nel castello di Windsor gli ultimi anni di vita, re Giorgio, ormai cieco, sordo, affetto dai reumatismi, alcune settimane prima di morire fu capace di parlare in maniera sconclusionata per 58 ore di fila. In questa messinscena, però, a colpire sono i suoi silenzi, il suo impaccio comunicativo. Lo stallo dei suoi pensieri, che tuttavia interroga il pubblico. Paradossi, appunto.
C’era una volta un re mette in luce il contrasto tra la corte, dove il sovrano è riverito e temuto, la debolezza dell’uomo malato e il mondo della politica, dominato dai cerimoniali pomposi e convenzioni rigide. La salute del re è al centro di giochi perversi. Alla famiglia reale, di fatto esautorata, resta il dovere di salvare l’etichetta. Il bizzoso sovrano, in fondo tenero nelle sue manie, è strumentalizzato da chi, dietro le quinte, complotta per alterare gli equilibri della nazione. Il burattinaio è l’insolente medico di corte (Pietro De Pascalis) supportato da due servitori muti (Umberto Banti e Luca Ramella).
Il passaggio dai fasti al delirio è reso da una scenografia semplice (di Vittoria Papaleo) prima di drappi e veli, poi di materassi che creano una parete-muro di gomma. Luci monocrome (di Claudio Intropido) ritraggono un’umanità disanimata, ipocrita e abietta.
Con musiche che spaziano dai Pink Floyd a Jimmy Fontana, da Tom Waits al Requiem di Mozart, lo spettacolo evidenzia la pericolosa contiguità fra potere e follia. Il potere logora, chi ce l’ha e chi non ce l’ha.
La forma dell’apologo fa riflettere sulla nostra realtà politica, sulla coltre di nebbia che tiene il popolo a distanza debita: pochi eroi, tante vittime, una folla d’ombre.
Ma la rottura dell’illusione scenica messa in atto da Facchetti va oltre. L’intreccio tra finzione e realtà diventa gioco metateatrale. Incrocia il presente. Apre lampi in direzione del passato. Gli attori si spogliano dei personaggi, scavano alle proprie radici, in una confessione che sa di outing e psicoterapia. Riaffiorano ricordi, schegge di vita vissuta, anche crudeli. E non finisce qui. Perché l’operazione rimbalza sul pubblico, con dei volontari che salgono sul palco a raccontarsi a propria volta.
Gli ingranaggi di questa sequenza finale dello spettacolo vanno oliati, ma l’idea è buona: riflettere su noi stessi, sul nostro impatto con il potere, sia quando l’abbiamo subito, sia quando l’abbiamo esercitato. Misurarci con il nostro passato. A costo d’imbatterci in qualche spettro, per elaborarlo.
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