VINCENZO SARDELLI | Starebbe bene come spazio performativo in una mostra sugli anni Settanta Figli senza volto, messo in scena dai milanesi Animanera, bel testo di Ida Farè, regia di Aldo Cassano, con una Natascia Curci di forte impatto. Una storia calata negli Anni di Piombo. Una militante della lotta armata, tra quotidianità e anonimato, affetti e ideologia. Tre quarti d’ora di monologo, in uno degli spazi angusti della Triennale-Teatro dell’Arte.
Ma qui tutto è angusto, il movimento, la parola, l’anima: «Ho seguito il filo della ribellione pura, l’acqua della vita. Sono state le vostre mani a intorbidirla di morte, ma eravate più forti e ho dovuto raccogliere le armi che mi avete consegnato. Sono diventata come voi. Ho bevuto l’acqua della ribellione amara».
Casermone popolare di una città del Nord, appartamento come tanti. Una donna sola, volto smunto, sottana, maglione a trecce. Moquette, sedia. Elettrodomestici dal design postmoderno: tv, ferro da stiro, videocamera. Borsa, scarpe. Giradischi, note su vinile: la struggente Ultima neve di primavera di Franco Micalizzi, l’acid rock di White Rabbit dei Jefferson Airplane, Rain and Tears degli Aphrodite’s Child, colonna sonora del Maggio francese: a volte sono i figli a tradire i padri.
Portacenere, cicche, fumo: gli oggetti (spazio scenico Valentina Tescari, costumi Lucia Lapolla) hanno contenuti emozionali. Ritagli di giornale, Polaroid, pistola, parrucca: travestimenti, anche della sfera affettiva. Patimenti, pentimenti. Anche le luci da interior design (di Beppe Sordi) sono emozionali, la progettazione dell’epoca era così spiazzante. Le luci dilatano ombre, le ombre i gesti. Gesti di mani intorpidite. Mani che tremano, sparano, uccidono.
Un velo sottile separa una vita dalle nostre. Due mondi, due epoche. Siamo in intimità, a volte in empatia, persino. Dietro la quotidianità di un uomo e di una donna, gesti e azioni banali, si cela l’angoscia di due terroristi.
La scelta della lotta armata. L’esistenza nell’ombra. L’ansia di nascondersi, dalla polizia, dai vicini, dal letturista del gas. Anche noi ci sentiamo braccati. Dall’urgenza di trattenere il tempo. Dalla giovinezza che vola. Da passato e futuro intrecciati, sospesi, nell’emozione dei silenzi.
Figli senza volto ce li ricorda bene quegli anni: le sigle di fine programmazione della Rai, il meteo di Bernacca, Kraft-cose-buone-dal-mondo, Bontempi e la musica a portata d’infante. C’è questo nello spettacolo, e anche il resto: le armi, l’isolamento, le atmosfere livide e profonde. Gli effetti audio (di Antonio Spitaleri) s’intersecano in uno straniante climax: borbottio di caffettiera, ticchettii di macchina da scrivere, sveglia, bomba a orologeria, spari di mitragliatrice, rombo di terremoto.
Suoni meccanici. Come la voce della protagonista, fredda e metallica. Come i colpi delle P38. E sangue, a fiotti.
C’è un climax anche olfattivo: sigarette, fumo, barricate, molotov. A squarciare il grigio dilagano, proiettati sul velo, effetti caleidoscopici, a creare un acquario psichedelico che è fuga, fantasia, filtro per una danza nell’ombra della protagonista. C’è un contrappunto, cose di un altro mondo: E se domani di Mina, l’intervista a una donna siciliana che prova a emanciparsi tra una fuitina d’amore e un paio di aborti, all’epoca clandestini anch’essi.
Brandelli esistenziali, ideologie perdenti, amori (e valori) smarriti. Nostalgia, disperazione.
Che cosa resta di quegli anni, delle battaglie, di chi sacrificò la vita, propria e altrui? Scorre sul velo-schermo-sipario, come titolo di coda, un bilancio di quelle ferite, curato da Giorgio Galli. A precederlo immagini della Tv contemporanea, Porta a porta, Il grande fratello, X-Factor, La prova del cuoco, Affari tuoi. Didascalia preziosa per alcuni, pedante secondo noi. Occorreva un finale, e forse è l’unica scaglia da limare di questa messinscena di grande intensità. Che ci ha trasmesso ricordi ed emozioni. E riflessioni, ancora nuove. Quarant’anni dopo.
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Caro Vincenzo, è vero che l’attrice è piuttosto brava, è vero che la riflessione sull’isolamento sarebbe stata interessante se sviluppata (e se ci fosse stata spiegata prima della scritta proiettata), perché nulla sappiamo -se non per intuito- del perché la protagonista sta rinchiusa, nulla ci viene detto del contesto ne’ storico ne’ sociale. tutto è lasciato alle nostre conoscenze personali.
inoltre il ripetuto gridare noi siamo come voi – sarà stato nel testo ma lo si adotta completamente da parte della regia – mi vede in profondo disaccordo: vivaddìo i brigatisti NON erano come tutti gli altri! per fortuna erano una velleitaria minoranza, che non è stata costretta proprio da nessuno ad armarsi, e che vagheggiava di una società basata su principi incoscienti e pe-ri-co-lo-sis-si-mi. La condiscendenza, quindi, verso di loro, mi spaventa, non in quanto tale ma perché viene da qualcuno che quegli anni non li ha vissuti, che quell’aria non l’ha respirata, ma la giudica comunque. E per giunta con generosità. Io sento odore di una sotterranea solidarietà. Che mi fa molta paura.
Trovo allora molto meglio riuscito e più onesto l’Aldomorto di Timpano che essendo 40enne, esordisce dicendo Io avevo solo 4 anni, Aldo Moro è morto senza il mio conforto, Che cosa posso capire io di quegli anni? e ne fa un racconto esterno, dal punto di vista di qualcuno che fatica, come me, a ritenere plausibili le follie che “il movimento” della lotta armata scriveva e gridava.
Elena, rilevo sempre con interesse le tue osservazioni perché presuppongono un punto di vista. Sulla condanna di quegli anni mi sembra di essere stato esplicito, partendo dal titolo. Trovo bello, a tratti poetico il testo, che è di Ida Farè, docente al Politecnico mi sembra, quindi non una novellina, neppure una teenager. Ma non è questo il punto, aver vissuto in prima persona certi eventi, altrimenti neppure Shakespeare avrebbe scritto il Giulio Cesare. Quale rituale apotropaico che fa riferimento alle colpe della società ho trovato il testo attendibile. I gruppi armati ripetevano insistentemente la litania: non solo “siamo come voi”, ma addirittura “siamo meglio di voi”. E volevano smantellare una società e una politica, un sistema economico che non riconoscevano. Sbagliavano. Credevano davvero di lottare per una causa e questo li rende ancora più colpevoli. Animanera propone il punto di vista di una terrorista, cerca di sondare la sua anima. È un testo introspettivo e psicologico, di atmosfere, non una pièce politica. Chi l’ha scritto, in modo a mio avviso non velleitario, ha voluto fare questa operazione. Non c’è rimpianto, più che altro impressioni. Ma mi piacerebbe che qualcuno della compagnia entrasse nel dibattito a dire la sua.
Vincenzo, grazie per il tuo commento. Segno di un’attenzione sensibile e attenta. Naturalmente accoglieremo volentieri le opinioni della compagnia, magari chiarificatorie. Dal canto mio riporto una sensazione diversa ma non opposta alla tua.
La lotta armata c’è stata, ci facciamo i conti ancora oggi, ma gli stessi elementi delle brigate rosse ci hanno riflettuto molto sopra e molti hanno pure analizzato la cosa con rigore e severità. Se i 40 anni passati non sono passati inutilmente, io mi auguro che siano serviti a capire gli errori, a capire i rischi e le colpe. E a non cascarci ancora. Se si affronta un tema del genere, per quanto introspettiva voglia essere la tua scelta, fai comunque, per forza, politica. Perché quei compagni credevano di fare politica. E si trovavano nella situazione in cui si trovavano, anche di isolamento, esattamente per quel motivo. Non si può scindere e pensare di parlare solo di un aspetto psicologico, che risulta monco.
Shakespeare avrebbe potuto scrivere non solo del passato che non ha vissuto ma pure del futuro, ma perché? Perché anche nei drammi storici affronta concetti e sentimenti eterni ed universali: l’onore, l’onestà, la meschinità, il potere, l’illusione…
Invece, proprio perché ci troviamo in un momento in cui circola – pare – un sacco di malcontento confuso e approssimativo, ancora più responsabili bisogna essere nell’affrontare la deriva tragica che fu.
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Cara Elena e caro Vincenzo,
a tutti noi che abbiamo contribuito alla messa in scena di Figli senza volto, le ragioni del terrorismo di allora, viste nel nuovo secolo, paiono assurde e folli. I giovani, oggi, vivono davvero in un altro mondo. Come pensare di abbattere lo Stato e il potere delle Multinazionali? Certamente il proposito del testo non era “giustificare” o addirittura “accondiscendere” a quella scelta, ma di rivelarne il drammatico errore. Eppure c’è un punto di domanda che per differenza unisce e divide le generazioni di allora e di oggi. Lo testimonia l’interesse che la vicenda di quella donna stretta da mille reti ha suscitato nel pubblico e anche nel vivace dibattito che ne è seguito. La forma estrema della ribellione armata è storicamente e tragicamente tramontata, almeno in Europa; allora non lo era, credeva di poter eliminare le ingiustizie, le disuguaglianze economiche e sociali. Ora si aprono altri mondi, ma ai giovani d’oggi si chiede, per differenza, la scelta di nuovi e migliori percorsi alla ricerca delle trasformazioni possibili.
Animanera con l’autrice