Operette-Morali-MartoneNICOLA ARRIGONI | «Mah…», viene da sospirare… La perplessità si mischia all’incredulità, assistendo alle Operette morali di Giacomo Leopardi nella visionaria e versione di cartapesta, realizzata da Mario Martone. Lo spettacolo – in tournée in tutta Italia – nasce come iniziativa del 150° dell’unità d’Italia e approda nei teatri in una versione ridotta e corretta rispetto all’originale che prevedeva una disposizione a coro del pubblico, una vicinanza agli attori e una scenografia ben più complessa di cui nell’allestimento in tournèe rimangono solo alcuni elementi. Operette morali è uno spettacolo d’occasione – il 150° dell’unità d’Italia – riadattato per una peregrinazione consolate e sconsolata nei teatri del Bel Paese sulla scorta dell’impegno cinematografico che ha visto Mario Martone raccontare l’epopea del risorgimento in Noi credevamo e ora affrontare sul grande schermo nientemento che la figura di Giacomo Leopardi. Coincidenza? Non si crede. Certo al regista napoletano va dato merito duna coerenza di indagine e unitarietà di ricerca che lo porta a farsi indagatore del sapere e dell’estetica che in un certo qual modo hanno definito il ‘nostro essere nazione’. Di questo impegno va dato conto, ma non sempre all’impegno e alla passione di analisi e di esegesi il teatro concede il suo miracolo d’emozione. E questo accade per le Operette morali nella versione per teatri all’italiana, quindo lontana dalla coralità materica per cui fu pensato lo spettacolo nel suo nascere. In una sorta di camera nera trovano spazio le immagini, i racconti, i dialoghi di quelle Operette che hanno come filo conduttore il rapporto, o meglio il non rapporto fra l’Uomo e la Natura, che sono il sognare e fuggire di Giacomo Leopardi, che sono il sogno e la finzione, che sono il teatrino del suo mondo di libri e di eroi, di favole e di sogni. In questa stanza oscura che è spazio mentale prima che spazio fisico c’è qualcosa di polveroso e di inelegante, forse non voluto ma palpabile e disturbante. Nelle apparizioni di Giove, Ercole e Atlante in tuniconi o nelle varie figure fantastiche e borghesi evocate dalla prosa dialogica del genio irriverente di Recanati si avverte un di più di finzione, anche un volere discendere verso la caricatura, il figurativo elementare e un po’ naif di certe stampe ottocentesche, magari anche il portato di certo teatro dei burattini e delle marionette, ciò si avverte, ma rimane un desiderio che alla pratica dell’azione scenica non sortisce l’effetto sperato. Le immaginette oleografiche di una classicità e di un mondo rubato a qualche libro illustrato per bambini sembrano trovarobato uscito da una soffitta, detriti di memoria di favole che sono destinate ad infrangersi nel non senso di un divenire che cancella la memoria, la storia, che condanna l’uomo a fare i conti con la morte e la sua infelicità. Il genio irriverente di Giacomo Leopardi avverte che i miti ma anche la razionalità illuminista non bastano a dare regione e speranza del nostro stare al mondo, forse perché la ragione non c’è. In questa disperante presa di coscienza di una ‘natura matrigna’ e di un divenire ineluttabile i racconti degli dei della classicità non possono che virare ad una comicità amara e irriverente, ad un sorriso disperante. Di questa comicità c’è segno più nella seconda che nella prima parte di uno spettacolo che divide, che consegna al noto il bel dire dei testi leopardiani e manca del sorriso che i poeti dicono essere sempre sulla bocca della disperazione, citando Leopardi. Per sopravvivere a tutto ciò i miti non bastano più, o forse a non bastare è la razionalità e allora non resta che gettare la testa nel baule in soffitta in cerca di ninnoli, di soldatini, di disegni color pastello delle favole che illusero o nutrirono l’infanzia, illusioni destinate a sciogliersi nel sorriso un po’ puerile di un teatrino fatto di fantasmi che ci mettono a confronto con la piccolezza del nostro essere al mondo. In questo contesto sembra plausibile leggere non solo l’estetica minimalista e un po’ greve di ciò che rimane delle scene di Mimmo Paladino,ma anche la recitazione di un gruppo di attori che dicono, declamano ma non sempre sciolgono il senso delle parole e della costruzione semantica e ritmica del periodare leopardiano. Renato Carpentieri, Roberto De Francesco, Iaia Forte, paolo Graziosi, Giovanni Ludeno, paolo Musio, Totò Onnis, Barbara Valmorin e Victor Capello recitano i dialoghi leopardiani, li dicono e in più punti si ha l’impressione di una misera mise en espace con la conseguente delusione per un cast che prometteva molto per nome ed esperienza di palcoscenico. Ci si aspetta il guizzo, si vorrebbe che quelle parole scottassero, ma non accade, ci si accontenta qua e là di credere a quello che si vede, ci si accontenta di un sorriso, di una comicità che dovrebbe esserci, anche sanguigna, magari irriverente, descacralizzante, ma che non graffia e fa tenerezza come quel gioco a palla fra Ercole e Atlante, come le torce finte dei primitivi incontrati da Prometeo e Momo, come il canto del Gallo silvestre di Paolo Musio che sembra Angry Bird… Ma magari ci fosse lo sberleffo pop, magari ci fosse il sorriso di Leopardi in queste Operette morali che lasciano basiti che soffrono di banalità, una banalità che provoca disagio, forze quello stesso disagio di cui Leopardi parla nel momento in cui denuncia e racconta il nostro essere nel mondo una presenza minimale e risibile…

LE OPERETTE MORALI di Giacomo Leopardi con Renato Carpentieri, Roberto De Francesco, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Giovanni Ludeno, Paolo Musio, Totò Onnis, Barbara Valmorin; regia Mario Martone; scene Mimmo Paladino; luci Pasquale Mari ; costumi Ursula Patzak; suoni Hubert Westkemper ; dramaturg Ippolita di Majo; aiuto regia Paola Rota; scenografo collaboratore Nicolas Bovey ; la musica per il Coro di morti nello studio di Federico Ruysch è di Giorgio Battistelli (Casa Ricordi – Milano) ; esecuzione Coro del Teatro di San Carlo diretto da Salvatore Caputo; Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Teatro Ponchielli, Cremona, 11 marzo 2014

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