ELENA SCOLARI | Il teatro ripensa agli anni di piombo. Di recente sono stati in cartellone a Milano, contemporaneamente, tre diversi spettacoli di argomento legato a quel periodo: Aldo Morto di Daniele Timpano, Enigma Moro di Roberto Trifirò e Figli senza volto della compagnia Animanera. A fine aprile tornerà anche Viva l’Italia di César Brie sull’omicidio di Fausto e Iaio. Mi sono chiesta se è un caso. Oppure c’è un motivo per cui, proprio adesso, in questa congerie storico-politico-sociale italiana, gli artisti del teatro indagano e si interrogano sugli anni bui del terrorismo nel nostro paese?
Abbiamo provato a farci aiutare in questa riflessione da Piero Colaprico, giornalista di Repubblica esperto di quei fatti.
PAC: Perché crede che in teatro il terrorismo e gli anni di piombo “tirino” così tanto in questo periodo? E in particolare per artisti intorno ai 40 anni?
COLAPRICO: Forse perché sono le ultime cose forti di cui si può parlare. Finiti gli anni del terrorismo – nel 1985 a Milano viene scoperto l’ultimo covo delle BR – dopo c’è stata la Milano della borsa. Di collettivo ed importante non c’è più niente fino a tangentopoli. Poi Berlusconi! Per 20 anni. Se sei un regista, un intellettuale, dove vai a pescare qualcosa di forte per capire le tue radici? Nel film di Sorrentino La grande bellezza la santa che mastica radici dice che lo fa perché le radici sono importanti. Le radici del 40enne di oggi sono negli anni ’70, tangentopoli non è appassionante perché di faccende di soldi si tratta, invece sangue e pistole sono materia scottante. La propaganda, certi principi da setta, la complicità molto stretta… è stata una stagione irripetibile. Donne, armi, gli assalti al carcere! Emozioni forti. C’era chi ne aveva bisogno, però ora gli ex brigatisti le emozioni non le raccontano, parlano delle rivendicazioni, delle idee rivoluzionarie che inseguivano, tacciono e negano di aver vissuto queste emozioni.
P: O negano che queste possano aver avuto un peso superiore alle ideologie.
C: Esatto. Pasolini, Sciascia, Buzzati, Testori hanno raccontato gli anni del boom economico, l’Italia del dopoguerra, dopo di che c’è il terrorismo. Un giovane quindi pesca in quel grande conflitto. E’ un tema basilare.
P: Pensa che la situazione italiana di questi anni, con tanta rabbia confusa e mal espressa potrebbe portare ad una deriva violenta?
C: I giovani di oggi sono diversi, prima di tutto perché hanno il computer. Io prendevo il tram per studiare coi miei compagni di università, non usavo Skype. Mi muovevo, conoscevo la città per le sue puzze, quel rapporto corporale con la vita che aveva la mia generazione i ventenni di adesso non ce l’hanno. Noi siamo una generazione invidiata non tanto perchè abbiamo trovato lavoro – era difficile anche per noi, non c’erano soldi, le domeniche a piedi perché non c’era benzina, ecc. – ma per il nostro senso del gruppo, il nostro essere veramente insieme, per la fisicità della lotta, anche la nostra musica è invidiata! Credo che internet abbia tolto molto corpo alla vita dei giovani, che quindi, per fortuna, avrebbero paura a passare ai fatti, a usare il loro corpo per fare la rivoluzione che alcuni invocano.
P: I tempi sono maturi per affrontare i fatti di quegli anni o sono ancora troppo vicini per poterne dare letture lucide? Penso anche al ruolo dei familiari delle vittime e al loro dolore, spesso ancora poco considerato.
C: Sì, siamo ancora vicini e ci sono sentenze recenti come quella sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia, chiusasi con un pesantissimo nulla di fatto, per esempio, i familiari delle vittime hanno raccolto una quantità di materiali e andrebbero consultati, quando ci si avvicina agli attentati e alle stragi della lotta armata. Esiste una tecnica investigativa, un metodo di ricerca storica, possiamo arrivare a picoli passi a stabilire alcune verità: Aldo Moro è stato sequestrato? Sì. Possiamo dire che è stato sempre in quel covo? No. I terroristi erano solo rossi? No. Ancora in molti vogliono rendere le acque torbide ma bisogna mettere dei punti fermi sui fatti di cui ci sono prove inequivocabili. Sarebbe già molto.
P: C’è una responsabilità “civile” degli artisti che affrontano gli avvenimenti degli anni ’70, legata anche all’attualità?
C: L’arte può rileggere e stravolgere, come ha fatto Bellocchio in Buongiorno notte, nel quale alla fine Moro cammina per Roma e non muore. Il problema non è l’aderenza alla verità, è la conoscenza raffazzonata. Gli artisti sono individualisti e non si documentano, da giornalista ho visto operazioni sgangherate, per ego personale, in alcune discutibili fiction tv si vuole dare valore a tesi che non hanno rapporti con gli atti giudiziari. Nel campo della creatività ritengo che per un lavoro ben fatto si debba parlare coi vecchi, con chi c’era. Con chi ha letto gli atti giudiziari. In Italia i giornalisti non sono reticenti, e darebbero volentieri informazioni. Per esempio Aldo Morto è un’operazione interessante per la presa in giro delle manie dei brigatisti, della loro autoreferenzialità, ma poi Timpano eccede in cinismo e si mette in una posizione di superiorità. Per fare un bel lavoro artistico bisogna parlare con i brigatisti, con i parenti delle vittime, con chi è scampato agli attentati, ma ricordando che quegli anni avevano caratteristiche di grande complessità e che chi ha messo mano alle armi è stato sopraffatto da una profonda fragilità. Si sono innamorati di un cambiamento che non potevano avere.
La responsabilità è l’impegno nella ricerca della verità.
Chi va a teatro, anche se è una minoranza, compie un’azione, fa dei chilometri e merita che la cronaca storica sia rispettata, anche se interpretata.
Non sono d’accordo sul cinismo di Daniele Timpano. Le operazioni teatrali non possono essere solo documentazione storica ma utile in altro senso all’oggi. Segnalo anche l’operazione “Chi resta” di Carmelo Rifici e Proxima Res (di cui ho curato parte della drammaturgia) che parla proprio dei parenti delle vittime (di terrorismo e mafia) e “Avevo un bel pallone rosso”, testo mio e regia di Rifici, dialogo tra Mara Cagol e suo padre. Credo che stiamo andando a scavare quel periodo storico (almeno io) per capire da chi veniamo, chi sono i nostri padri e i nostri insegnanti. Ci è stata taciuta (o censurata?) la cultura (così vicina!) da cui veniamo. Angela Dematté
Cara Angela, grazie delle segnalazioni che fai, sono salutari proprio perché su PAC vorremmo che la discussione si allargasse al tema generale artisti-anni di piombo, quindi ci sarà una seconda puntata. Mi pare infatti che le parole di Colaprico muovano osservazioni interessanti, che vogliamo approfondire.
Segnalo anche “La gabbia” di scena alla Cooperativa in questi giorni, fino a domenica 30 marzo, testo di Stefano Massini, regia di Renato Sarti. Affronta il rapporto tra una madre e la figlia brigatista condannata al carcere.
Quanto alla percezione dell’opinione pubblica circa il terrorismo in quegli anni, e al ruolo della stampa, ribalterei la questione che è stata posta da Colaprico. Perché la stampa non fa più inchieste, come accadeva prima degli anni Settanta, e si attende supinamente la verità dal Potere? Peggio ancora: dimentica Colaprico che la stampa di quegli anni prese fischi per fiaschi, negando sul nascere l’esistenza e la matrice di sinistra extraparlamentare delle Brigate Rosse? Oppure affermando che si trattava in realtà di brigate “nere”, intravedendo nel terrorismo di sinistra oscure e mascherate trame di Stato, surrettiziamente volte a rafforzare il potere dello Stato stesso ?
Giorgio Bocca fu tra i pochi a riconoscere di aver preso cantonate. La verità è che la stampa di sinistra, “Repubblica” compresa, capì poco o capì tardi quello che stava succedendo. Si legga a proposito l’interessante saggio di Michele Brambilla “L’eskimo in redazione. Quando le Brigate Rosse erano sedicenti” (edizioni Ares).
Caro Vincenzo, Colaprico no ha difeso nella stampa di sinistra ne’ Repubblica in particolare, è verissimo che c’è stato un certo “ritardo” da parte della sinistra nel riconoscere una matrice rossa nel terrorismo, anche Valentino Parlato del Manifesto lo ha ammesso. La faccenda ha mille rivoli, io voglio provare a capire di più, voglio capire se il mezzo che meglio conosco e cioè il teatro può essere strumento utile. io credo di sì.
Sì, conosco Colaprico, la querelle non è rivolta a lui. Ma l’affermazione che “in Italia i giornalisti non sono reticenti, e darebbero volentieri informazioni” , se è stata riportata fedelmente come non ho motivo di dubitare, fa ridere, ed è una contraddizione in termini, perché la stampa le informazioni se le cerca, è questo il suo compito. E poi in pochi Paesi come l’Italia la stampa è prona al Potere o alla propria parte politica. Reticente fino alla connivenza. Altro che chiacchiere. Quanto al teatro non credo il suo compito sia quello di fare inchiesta, anche se a volte ci riesce alla grande. Fo, Cavalli, lo stesso Sarti ne sono alcuni esempi.
Non sta a me difendere Colaprico, ad ogni modo per sgomberare da equivoci: intendeva dire che alcuni artisti, a suo dire disinformati, potrebbero invece trovare facilmente chi si presta a raccontare molto (come è capitato a me con lui, per esempio). Il che non è affatto in contraddizione con il dovere di inchiesta della stampa, ultimamente poco frequentato, sono d’accordo.
Sul teatro: non deve fare giornalismo in senso stretto ma se riesce (come fece per altro anche Paolini in maniera molto meno schierata di Fo e di altri che sottaccio) a muovere le opinioni divulgando fatti ben documentati allora fa un lavoro civile, di servizio, sociale oltre che artistico. Fa politica nel senso alto. E può farlo con risultati di “audience” anche molto importanti. Il teatro deve poi essere libero, eccome, e quando ci riesce rende un po’ più liberi anche noi.
[…] Brigatismo e teatro: intervista a Piero Colaprico […]
Torno ora a leggere le risposte e, innanzitutto, preciso che ritengo Daniele Timpano un artista geniale e per niente cinico (l’incipit del mio commento si poteva forse fraintendere…). Il parlare della “cronaca” a teatro è sempre un fatto spinoso. Lo è sempre stato. Forse, semplicemente, bisogna pensare che il teatro cerca di tirar fuori qualcos’altro dalla realtà. Qualcosa che si chiama mistero, infinito, follia, immaginario collettivo, surreale… che attraversa la storia e avvicina gli uomini. Tanto più se si parla di cronaca. E’ l’altra faccia, l’altra possibilità dentro la realtà. Per non rimanere soffocati, forse. Per imparare a com-patire, forse. Questo non vuol dire non documentarsi, ma guardare quei “documenti” da diverse distanze e con sguardi nuovi. Credo che di questo ci sia bisogno oggi. Mi spiace non poter approfondire in tale sede.
Anch’io non sono d’accordo affatto sul mio cinismo, che non c’è da nessuna parte in me. Si chiama ironia, si chiama critica, si chiama in tanti modi ma non cinismo. Direi che non c’è nemmeno superiorità. Non è per superiorità che non ho fondato quel mio lavoro sulle testimonianze ma per tentare un passaggio, una presa di distanza proprio da quelle testimonianze, una presa di testimone, fragile quanto si vuole ma sincera, e poi lo spettacolo parla molto più di questo presente di impotenza che degli anni 70 che furono. Spero ci siano occasioni per approfondire con Colaprico queste questioni, che trovo qui velocemente liquidate e malposte…