LAURA NOVELLI | Un corpo di donna seduto su una poltrona girevole come fosse sospeso tra la pienezza di certi colori vivaci, sfoggiati con caparbia energia, e il vuoto di due gambe offese dal destino, malate, adagiate su un mantello rosso sangue che le chiama al di là della vita. Gonna ampia, collana vistosa, tre fiori in testa a incorniciare un volto inconfondibile, sensuale e insieme selvaggio: vediamo la sua immagine riflessa in un grande specchio che, incastonato nella splendida sala del Teatro di Documenti, ancor più sembra suggerire quest’atmosfera di limite, sospensione, passaggio, lasciando altresì intuire l’idea di un indiscreto, ennesimo, autoritratto destinato a suggellare ancora una volta la sublimazione di una perdita.
Si intitola semplicemente “Frida K” il monologo in cui Enrica Rosso – regista e interprete, su drammaturgia di Valeria Moretti – racconta la celebra pittrice messicana Frida Kahlo (1907-1954), proponendo al pubblico capitolino un lavoro debuttato nel 2007 ad Orvieto che, in concomitanza con la ricca esposizione di opere in corso alle Scuderie del Quirinale e in attesa della mostra “Frida Kahlo e Diego Rivera”, prevista al Palazzo Ducale di Genova da settembre, cavalca quella Frida-mania di cui così tanto si scrive e si parla nelle ultime settimane.
La sentiamo prima cantare e poi parlare con un accento spagnoleggiante dove vibrano le note malinconiche di una lingua quanto mai musicale e ritmata. Quella che abbiamo innanzi è una donna solenne, quasi altera, ma vicina alla fine che, come spesso capita nei testi costruiti intorno alla biografia degli artisti (penso, ad esempio, a un lavoro come “Non sentire il male” che Elena Bucci ha dedicato ad Eleonora Duse), si affida ai ricordi per ricostruire il puzzle della propria vicenda umana e creativa, e per cercare conforto in un’altra sé immaginaria (Nina Bonita) che – illusione estrema – sia in grado di farla sentire libera dalle sofferenze e dai rimpianti più acri.
Intensa, mutevole malgrado la posizione pressoché immobile, delicata e poi improvvisamente violenta, forte ma di una forza fragile e contraddittoria, Frida/Rosso ci regala una figura femminile immensa: sfogliando un album di vecchie foto, la pittrice leggendaria e stravagante di quel Messico rivoluzionario che ha rappresentato per lei molto più di una nazione e di un’appartenenza geografica, pesca brandelli di sé nella memoria. Procede per lampi, accostamenti, ossessioni ricorrenti: l’incontro con Diego Rivera, il matrimonio, i tradimenti subiti, il figlio mai avuto (tradotto nell’immagine ricorrente del feto morto), le cene e gli incontri con Trotzky, i riferimenti agli artisti coevi (in particolar Picasso e Breton), il Messico comunista, le cameriere del popolo cui “rubava” i vestiti, fino al terribile incidente in cui rimase coinvolta a diciassette anni e che le costò una vita di ricoveri, busti, degenze a letto (da dove dipingeva), operazioni, dolori terribili alla schiena. Il cerchio si chiude appunto con l’amputazione della gamba sinistra che l’attenderà da lì a poco. La calza nera che copre uno solo degli arti dice tutto da sé e ricapitola, in un dettaglio solo all’apparenza minore, quell’immaginario fisico, barocco, luttuoso ma insieme primitivo e naïf che contraddistingue le opere della Kahlo. Se il terreno di battaglia – e di ispirazione artistica – privilegiato è stato, nella sua produzione, proprio il suo corpo sofferente e martoriato, in questo lavoro, quello stesso corpo, pur se fermo e statico, si fa quadro. Restituendo, al contempo, tutto quell’anelito di libertà e di passione che ha trasformato l’artista in un’icona di stile. Ed è la bravura della Rosso a garantire questa complessità di livelli interpretativi. La sua egregia prova d’attrice ci fa dimenticare anche il fatto che il monologo, sebbene ben scritto, risenta di un eccesso di letterarietà e a tratti sfiori il didascalismo, diventando troppo illustrativo e monocorde. In questo caso, dunque, il corpo in scena supera la linearità della scrittura e, un po’ come succede nei dipinti della Kahlo, spalanca orizzonti emotivi al di là delle parole stesse.